Di che rosso dovrei parlare
13 Dicembre 2022
laFonteTV (3827 articles)
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Di che rosso dovrei parlare

Lo ricordo bene il mio primo convegno contro la violenza sulle donne: era il 1983, al Palazzo delle Stelline, Milano. Dopo due giorni di interventi a livello mondiale, ebbi un crollo e la volontà di alleggerire lo sprofondo in cui ero caduta! Uscii e andai alla Rinascente.

In quel convegno già si ipotizzavano luoghi per le donne che non lavoravano e non avevano possibilità quindi di allontanarsi da casa, laddove maltrattate. Centri antiviolenza, case rifugio hanno preso forma in alcune regioni italiane proprio in quegli anni.

Oggi secondo l’Istat la violenza di genere è un fenomeno ancora sommerso. È elevata, infatti, la quota di donne

– che non parlano con nessuno della violenza subìta (il 28,1% nel caso di violenze da partner, il 25,5% per quelle da non partner),

– di chi non denuncia (i tassi di denuncia riguardano il 12,2% delle violenze da partner e il 6% di quelle da non partner),

– di chi non cerca aiuto; ancora poche sono, infatti, le donne che si rivolgono ad un centro antiviolenza o in generale un servizio specializzato (rispettivamente il 3,7% nel caso di violenza nella coppia e l’1% per quelle al di fuori).

Ma la cosa più preoccupante è che queste azioni sarebbero davvero essenziali per aiutare la donna ad uscire dalla violenza. Per questo motivo le politiche di sensibilizzazione sono essenziali per trasmettere una fonte di aiuto. Anche perché sovente le donne che provano ad uscire dalla violenza e lasciano il partner violento, spesso tornano con lui proprio perché non hanno cercato aiuto in risorse esterne all’ambiente familiare. Inoltre emerge dai dati che le vittime spesso non sanno dove cercare aiuto, basti pensare che il 12,8% di queste non sapeva dell’esistenza dei centri antiviolenza o dei servizi o sportelli di supporto per le vittime. Inoltre molte donne non considerano la violenza subìta un reato:

– solo il 35,4% delle donne che hanno subìto violenza fisica o sessuale dal partner ritiene di essere stata vittima di un reato,

– il 44% sostiene che si è trattato di qualcosa di sbagliato ma non di un reato.

– 19,4% considera la violenza solo qualcosa che è accaduto.

È importante quindi in tal senso far crescere la consapevolezza femminile rispetto a quanto subìto.

Il 25 novembre 2022 abbiamo visto Palazzo Chigi rosso con i nomi di 104 donne che sono state uccise nel 2022 da gennaio. Posso dire che ho avuto uno scoramento? Tutto quello che è stato fatto, le azioni private ed istituzionali, prevalentemente della sinistra, di questi 40 anni sono passate “sotto silenzio” rispetto all’immagine visiva e d’impatto offerto dal presidente di destra Giorgia Meloni.

Ed ora di che rosso dovrei parlare? Il rosso richiama la prima installazione datata 22 agosto 2009 di Elina Chauvet, nata in Messico. Elina utilizzò delle scarpe rosse in un’installazione artistica pubblica, per indicare il vuoto creato dal corpo delle centinaia di donne uccise nella città messicana di Juárez. Erano state tutte rapite, stuprate, orrendamente mutilate e uccise per strangolamento.

Elina Chauvet notò come le autorità minimizzassero il problema. Decise così di rompere l’omertà ed il silenzio che avvolgeva questi fatti attraverso una comunicazione visiva di forte impatto. L’iniziativa dell’artista messicana ebbe da subito una grande eco e venne replicata in quasi tutti i paesi del mondo.

L’ultimo nel tempo sembra l’Iran. “Cantare. Ballare. Essere sposate e viaggiare da sole. Andare allo stadio al di fuori delle partite della nazionale. Far scivolare i capelli tra le dita e il vento in pubblico”. Queste sono solo alcune delle cose che le donne iraniane ancora oggi, nel 2022, non possono fare. E se le limitazioni alla libertà femminile non sono nuove nel Paese degli Ayatollah, sembra essere maturata una consapevolezza nelle nuove generazioni di giovani e giovanissime donne che rende inevitabile lo scontro con il regime.

Proprio dall’obbligo di indossare il velo – a partire dai 9 anni – è scaturita la drammatica vicenda di Mahsa Amini: la giovane 22enne, di origine curda, si trovava in vacanza con la famiglia a Teheran quando, il 13 settembre scorso, veniva arrestata dalla “polizia della morale” per aver indossato in maniera scorretta l’hijab. Le percosse degli agenti – riportate da svariati testimoni – le causano un’emorragia cerebrale e dopo diversi giorni in coma, la ragazza muore. Il fatto non passa inosservato. Da subito si propagano le proteste in tutto il Paese, capeggiate da coraggiose manifestanti che a testa scoperta tagliano ciocche di capelli e fanno roteare gli hijab in segno di protesta. Non si fa attendere la dura repressione del regime con almeno – secondo quanto riporta la Ong Iran Human Right – 92 persone uccise nel corso delle proteste. La questione del velo, o meglio, la normativa statale sul tema è – come definito da Amnesty International – una sistematica “flagrante violazione dei diritti delle donne iraniane alla libertà di espressione, culto e religione”.

Non è una novità la ribellione delle donne iraniane: molte artiste hanno espresso in patria ed in esilio la propria disapprovazione. Una delle più interessanti è Shirin Neshat che sviluppa per la prima volta un progetto che la renderà famosa in tutto il mondo: Women of Allah, una serie fotografica realizzata tra il 1993 e il 1997. “Volti di donne velate e primi piani di parti del corpo femminile sono ritratti come simboli di un’intimità segreta e dolorante che finalmente si apre al mondo e all’Occidente. Sulle mani, sui piedi e sui visi l’autrice scrive versi di poetesse iraniane contemporanee, come fossero strumenti di riflessione e ribellione”.

Fra queste voci emerge, primeggia una poetessa degli anni ’50, una delle voci più interessanti dell’Iran, e certo la più celebrata Perché dovrei fermarmi? […]È solo la voce che resta… Con un’operazione unica nell’ambito della letteratura persiana, Forugh Farrokhzad nei suoi versi parla da donna, mettendo in piazza i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, la sua protesta. La paura della morte crepita nelle ultime liriche, come se Forugh fosse presaga del suo tragico destino: è proprio in un freddo giorno di febbraio che la sua auto scivola su una lastra di ghiaccio e lei muore, poco più che trentenne. La popolarità è tale da venir spesso menzionata solo con il nome: Forugh. Forugh Farrokhzad è ora il simbolo della voglia di vivere e di libertà degli iraniani, un faro della loro cultura, tanto che la sua tomba è meta di pellegrinaggio di tantissimi giovani e non, che vi sostano a recitare le sue poesie, fra gli alberi carichi di neve nei freddi inverni di Teheran.☺

 

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