diffusione della cultura
31 Maggio 2010 Share

diffusione della cultura

 

E se siamo, in qualche modo, felici,

non possiamo far altro che promuovere la cultura.

(Friedrich Nietzsche)

Sin dal Medioevo, l’intellettuale è colui che è deputato alla produzione e diffusione della cultura, ovverosia dei più alti valori ideali che una data società ha prodotto fino a quel momento storico. La sua figura si identifica in toto con quella del clericus, nel duplice significato di “ecclesiastico” puro e di “persona istruita”, in senso lato, dato che il più delle volte coincidevano nella medesima persona. Caratteristiche principali erano l’uso prevalente del latino quale lingua ufficiale (e quindi una destinazione ipso facto elitaria) e una strana – per lo meno ai nostri occhi – concezione dell’originalità. A quel tempo, infatti, la concezione autoriale non era stringente come oggigiorno (men che meno c’era il diritto d’autore), in quanto il concetto stesso di auctoritas era essenzialmente legato a quello di tradizione: la produzione culturale era una iscrizione in un solco già tracciato all’interno del quale il passato veniva costantemente ripreso, lasciando infimo spazio per una supposta originalità (almeno così come la intendiamo noi). La produzione era lenta e costante ri-produzione in un continuo confronto con la tradizione culturale precedente. Accanto a questa figura per così dire “istituzionale” (in senso parsoniano), cominciavano, però, ad apparire anche altri soggetti un po’ più irregolari: giullari, clerici vagantes, che diffondevano produzioni in volgare, di argomenti più facili e lascivi, destinate a rappresentazioni pubbliche e, quindi, ad una maggiore diffusione, seppur di minore levatura.

Con la diffusione della forma di organizzazione socio-politica del comune la produzione culturale, sempre all’interno di una funzione di diffusione della visione religiosa, va però a specificarsi in direzione delle mutate coordinate “sociali”. L’intellettuale non è più solo un chierico, ma inizia a entrare e a incidere nella vita stessa della città in cui si trova. Si diffonde così la figura dell’intellettuale – cittadino che, oltre ad avere una sua propria professione che gli consente di sostentarsi (in prevalenza mansioni giuridiche e notarili), è impegnato in un ruolo pubblico di definizione delle priorità e dei bisogni della città. Ove, poi, la città è governata da una corte o da una signoria, l’intellettuale è, più propriamente, un intellettuale – cortigiano: al servizio della corte che lo ospita, sia attraverso mansioni di ambasceria che come vero e proprio cantore del nome e delle gesta del signore che lo “proteggeva”(Qui vi era l’intenzione che la parola svolgesse funzione eterizzante). Queste due figure segnarono i due itinerari che, fra Umanesimo e Rinascimento, si potevano aprire innanzi a chi volesse svolgere professioni non manuali (le cosiddette arti liberali, degli uomini “liberi”). La diffusione, oltre che regolata funzionalmente (il popolano non avrebbe mai letto un documento di una legazione ufficiale), dipendeva dalla lingua di produzione, il latino, che continuava ad essere prerogativa di pochi. Accanto ad esse, persisteva in ogni caso la possibilità di godere di una rendita ecclesiastica per gli uomini di lettere (si pensi al Petrarca), ma anch’essa risentiva del mutato clima politico.

Se nell’Umanesimo (soprattutto in quello cosiddetto civile) tendeva a prevalere l’intellettuale – cittadino (il Dante della prima parte della sua vita ne è fulgido esempio), nel Rinascimento, anche per l’affievolirsi della carica innovativa e dinamica della forma – città, è l’intellettuale – cortigiano a farla da padrone. Sue prerogative erano la condizione di sostanziale subordinazione al potere politico (ne era a tutti gli effetti un dipendente) e una estrema specializzazione mansionaria: da ruoli di diplomazia, segreteria si poteva giungere a quelli più “umanistici” di pedagoghi o bibliotecari. Se queste caratteristiche presentavano evidenti problemi di libertà d’espressione (paradossalmente la condizione clericale, all’epoca, offriva maggiori garanzie di indipendenza d’espressione), non si può sottovalutare la grande considerazione che tale condizione garantiva. Le humanae litterae, quali deposito dei valori più alti e quali principi di organizzazione delle regole della vita collettiva e di istruzione delle future classi dirigenti, erano poste al sommo grado di importanza dagli stessi signori che, paradossalmente, non potevano fare a meno di quelli che erano, in buona sostanza, dei loro dipendenti (il fenomeno del mecenatismo si definisce in entrambi i sensi di direzione). Nel Rinascimento, inoltre, iniziarono a svilupparsi singolari (e importanti) fenomeni di mobilità infra-curiali da parte degli intellettuali che, in un circuito per forza di cose ancora chiuso, potevano godere dei vantaggi dei progenitori degli odierni “scambi culturali”. Allora l’ideale della “Repubblica delle Lettere” sembrava più a portata di mano che mai. Quando, però, la Storia irrompe nell’empireo dell’ideale, fa molti più danni di quanto ci si possa immaginare. Fra il 1494 (calata di Carlo VIII in Italia) e il 1527 (sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi) il sistema delle corti e delle signorie entra in crisi e, con esso, anche il ruolo dell’intellettuale al suo interno. Privato del suo riferimento socio-politico, l’ex intellettuale – cortigiano ha davanti a sé due sole alternative per riqualificarsi: o la solita ipotesi di carriera religiosa, considerando il fatto che gli stili di vita (almeno fino all’età della Controriforma) non erano così tanto difformi rispetto al laicato, oppure il nascente sistema delle Accademie, specialistico e autoreferenziale. In entrambi i casi un maggiore distacco dalle tematiche “sociali” precedenti. Emblematico in questo senso può essere il confronto fra un intellettuale di corte che descrive le caratteristiche necessarie a un perfetto cortigiano (Castiglione) e un vescovo che detta le norme puntuali di comportamento (Monsignor Della Casa). Se nel Cortegiano si presentano (idealizzandoli) gli attributi del perfetto uomo di corte (nobiltà d’animo, grazia nei rapporti sociali, eccellenza nelle armi e nei tornei, rifiuto dell’eccesso, eleganza nel vestire), al cui apice riposa la sprezzatura, ovvero la capacità di dissimulare lo sforzo (e di apparire naturali) nel proprio vivere (a corte) da “vero uomo di corte”, nel Galateo l’obiettivo di destinazione viene “abbassato” e “diffuso” (non più la corte, ma i comportamenti quotidiani di ognuno). Ciò che si prefigge di fare il Della Casa è offrire una minuta normativa di correzione comportamentistica, tutta finalizzata alla propaganda di un ideale medio di vita da tenere in ogni ambito della quotidianità. I tempi sono cambiati, le usanze devono regolarsi di conseguenza.☺

edoardo.lamedica@gmail.com

 

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