disarmare la finanza   di Silvio Malic
31 Gennaio 2012 Share

disarmare la finanza di Silvio Malic

 

“La moltiplicazione del male non ha futuro,

la mediocrità interessata non ha speranza

di poter prolungare la sua sopravvivenza

a spese dei puri di cuore, degli operatori di pace,

degli appassionati per la giustizia;

e con essa, ogni egoismo religioso chiuso nel proprio privilegio

ogni parassitismo economico chiuso nel proprio benessere

 ogni calcolo politico chiuso nel proprio dominio.

(C.M.Martini, La speranza, in Sto alla porta p.114

Ci ritroviamo sorpresi e intimoriti davanti alle conseguenze devastanti della crisi finanziaria. Di fatto – consapevoli o meno – risultiamo partecipi se non complici, di un processo che si muove contro l’uomo, contro la salvaguardia della terra, degli ecosistemi e delle biodiversità, contro la possibilità di vita sociale, contro il valore umanizzato dell’operare virtuoso racchiuso nei concetti di impresa, lavoro, credito, mercato, libertà. Siamo indignati perché, ora, dopo aver travolto le “economie deboli” si rivolge e stravolge anche quelle “sviluppate”, ovvero noi stessi.

Eppure, dalla fonte nuova del Concilio Vaticano II e da un suo primo frutto – il 2° Sinodo dei vescovi (1971) dal titolo impegnativo La promozione della giustizia nel mondo – è scaturito un magistero innovativo indicatore di un cammino ardito. Se scorressimo l’indice dei capitoli dalle encicliche sociali, dalla Populorum progressio (1967)alla Caritas in Veritate (2009), troveremmo come ritornello continuo la parola sviluppo. Compito nuovo da affrontare perché fosse integrale e solidale per divenire  nuovo nome della pace (Populorum Progressio di Paolo VI nel 1967); si rivelasse autentico e umano  (Sollecitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II nel 1987); sviluppo che interpretasse il nostro tempo, coniugando sviluppo economico e società civile,  sviluppo dei popoli e ambiente,  sviluppo e tecnica  (Caritas in Veritate di Benedetto XVI nel 2007/2009). Paolo VI concludeva con l’invito “tutti all’opera”, Benedetto XVI ci invita al coraggio di progettare un “nuovo modello di sviluppo”.

Il sonno o, in verità, il solletico a farne parte senza sguardo critico, interprete del dove ci stava portando, ci ha intontito come un pugile sul ring. L’opera da intraprendere comportava, certo, una dura fatica spirituale: si trattava di interpretare il nostro mondo, il nostro modello di sviluppo, il nostro stile di vita.

Lampioni accesi sulla strada

Emerge un problema grave di cultura nelle chiese occidentali, cattoliche o non, conformate allo spirito dell’occidente fino a rendere evanescente il Vangelo.  Testimoni, studiosi e voci critiche non sono mancati; ma come affermava Mazzolari, sono “lampioni accesi sulla strada”: fanno dono gratuito della luce ma le gambe in cammino devono essere le nostre, quelle del popolo in cammino come amiamo definirci. Forse, peggio ancora, ci siam messi a correre verso la Borsa, scambiandola per il Regno dei cieli. È successo con le mafie, accade con il modello di sviluppo occidentale e – nell’oggi immediato – con il potere devastante di questa nostra finanza tossica, finché… gli “indignados”, presenza inattesa e planetaria, pacifica, festosa e tenace, nonostante gli sgomberi violenti, hanno indicato in ogni latitudine, dove risiedeva la mente diabolica dei problemi e da  dove ripartire con giustizia innovativa, invitandoci a riappropriarci del giusto rapporto di rappresentanza: noi siamo il 99%, e possiamo avere “sviluppo” in dignità e possibilità vitali, per una questione laicamente e rigorosamente di giustizia economica prima ancora che di carità evangelica, divenuta stampella ai poteri e non più forza liberante e innovativa della storia laddove ha rinunciato al “discernimento” della storia. In quale comunità della storia la ricchezza posseduta è servita solo a far guerra ai membri della propria comunità senza che l’indignazione sorgesse a svelarne la follia omicida?

Un fatto nuovo – sebbene dal sapore di ultimatum – ci consola: ormai la persona umana, tolta dall'immagine creata dal pensiero metafisico, è stata messa sulla strada davanti alla decisione: a  noi, quindi, tocca riprendere in mano la storia e la qualità del nostro sviluppo su strade di giustizia per l’intera famiglia umana e non per una ristretta élite. Se non usciamo, come vero esodo liberatorio, da luoghi e ambiti di questi poteri omicidi, come pretendiamo di esserne interpreti dalla parte degli ultimi?  È dura capirlo: noi siamo quel mondo che oggi uccide noi stessi dopo aver devastato la vita di popoli.

Quale sviluppo?

La globalizzazione può e deve essere l’ambiente e la condizione mentale in cui perseguire lo sviluppo, ma solo se immaginato come bene comune dell’intera umanità. “Dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone deriva innanzi tutto il principio del bene comune, al quale ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare pienezza di senso” afferma il Compendio della Dottrina Sociale (n. 164). Non sono concetti nuovi le parole fondative; ora immersi nella passione dei tempi e dei popoli, cristiani e non, in reciproca com-passione, si assumano il coraggio del bene comune, attenti soprattutto al secondo termine generatore: unità. La separatezza, infatti, è il sacramento visibile, da tutti avvertito, della crisi inafferrabile di questo modello di globalizzazione: il mondo economico implode dall’interno perché non vuole dare senso organico allo sviluppo. Separare anziché unire – reale strategia di guerra ideata da Napoleone – sta alla base del modello generatore della crisi attuale – foriera di nuovi e sempre maggiori conflitti – perché  l’economico è separato dal sociale; la ricchezza è separata dal lavoro; il mercato è  separato dalla democrazia e le regole; la moltitudine dei poveri, separata dalla sorte privilegiata dei pochi arricchiti, é abbandonata  a se stessa.

Scrive Arturo Paoli: “La verità astratta metafisica è sotto accusa non solo per la globalizzazione, – il cui simbolo è il denaro – sistema che svuota i beni della terra del loro unico senso: soddisfare i bisogni essenziali dell'uomo per farne un valore in sé, cioè un feticcio. Ma, risultato ancora più grave, consente progetti e guide di spiritualità che trascurano l'economia, lo strumento più diretto per creare concretamente vita o morte, giustizia o la sua negazione. La tragedia del popolo credente attualmente è vivere nella idolatria senza difesa, perché chi ha la responsabilità e il dovere di difenderlo, è mantenuto fuori dall'arena dove si gioca veramente l'epico duello denunziato da Gesù: o Dio o mammona. Lo spazio metafisico ha permesso al mondo cristiano di togliere Gesù dal faccia a faccia e di pensarlo solo alla destra del Padre. Classificarlo come onnipotente è negare la prossimità come avviene ai due religiosi della parabola del buon samaritano. Il sacerdote è fissato in una verità astratta cui obbedisce ciecamente confondendola con la verità concreta; il levita, studioso pensatore, è l'immagine del laico sicuro della verità, che egli pone  fuori dalla realtà. Il samaritano coglie la verità nel lamento di quell'ignoto giacente sulla strada, assalito non da tigri o cani rabbiosi, ma da elegantissimi banchieri o titolati politici. Guidati dalla legge vanno verso il tempio e non vedono l'altro, forse pensano di soccorrerlo con la compassione e la preghiera. Collocando i veri valori e le vere responsabilità nella lontananza abbiamo permesso all'idolo sterminatore del mercato di stabilire il suo trono fra noi. Nell'aria tranquilla di un ufficio climatizzato hanno deciso di toglierlo dal mondo perché appartiene al numero degli esseri esuberi, fuori da quella quantità di esseri in cui hanno deciso di fissare la crescita dell'umanità”.

Pace e guerra

Il Vat. II ci aveva avvertito dell’obbligo di “considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova” (GS n. 80) e considerare che, “la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità che danneggia in modo intollerabile i poveri;… produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi…Liberiamo noi stessi dall'antica schiavitù della guerra” (GS n. 81).

Abbiamo digerito, senza turbamento, la ridefinizione umanistica della guerra: non era certo la mentalità… nuova alla quale ci faceva obbligo il Concilio. È divenuto familiare ai cristiani il linguaggio che purificava il volto della guerra definendola “chirurgica”, combattuta con armi “intelligenti” perché di “tecnologia avanzata”, dentro “missioni di pace” o per “esportare la democrazia”, per tener fede ai “patti” sanciti nelle “alleanze” ecc…, relegando in secondo piano Vangelo, Concilio, costituzione, diritto internazionale.  Le guerre reali combattute anche dai nostri soldati, dilavate dal volto inquietante, in modo subdolo, si sono  trasferite, con chiaro linguaggio e metodo spietato, all’economia, al mercato, alla finanza, allo sviluppo: tutte aree sciolte (ab-soluti) da ogni vincolo e responsabilità, ingaggiate a far guerra a tutti: stati, società, lavoro, terra, ambiente, beni comuni.

Di armamenti abbiamo ragionato sempre dal nostro punto di vista occidentale, contorto e autoreferente, raramente, dal punto di vista del Concilio: “è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri”. Sarà possibile affermare, nelle nostre comunità, senza mal di pancia perché abbiamo i cappellani militari “evangelizzatori” dentro gli eserciti, che guerre e armamenti rappresentano una piaga da cui guarire e non nascondere sotto ragionamenti-benda, perché danneggia in modo intollerabile i poveri? Tra danno economico intollerabile da armamenti e guerre di ogni natura e poveri danneggiati vogliamo che questi vivano: o diventiamo complici di una progressiva distruzione che potrebbe segnare la fine della storia o responsabili del futuro della vita.☺

 

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