Né Marsiglia né vaniglia, ma un fresco ineguagliabile, appena acre, da solleticare le narici e predisporle ad ogni altro effluvio. Cosicché, quando c’è la neve, sarà che i polmoni si aprono, tutto e tutti acquistano al netto il loro odore. E se non è un odore gran che gradevole, fa niente: perché “lei” – la neve – sorvola e sovrasta, condona e perdona, con quella sua fragranza pura e delicata espansa ovunque, e quel bianco integrale, casto, che avvolge gli occhi.
La nostra era fino a non molto tempo fa una terra di nevicate appetitose, memorabili; col passare del tempo le cose sono cambiate, fino alle ingloriose nevicate degli ultimi anni, una neve “fuffa” – dico io – che posa e subito scioglie, perché le temperature precipitano a picco e repentinamente si rialzano, a momenti primaverili.
Sempre, naturalmente – viva Dio – le cose cambiano e le geremiadi dei laudatores temporis acti, quelli che il passato, anche con la clava e i dinosauri ad inseguirti sul ghiaccio, è meglio ad ogni costo, sono insopportabili. D’accordo.
Ma l’impressione è che in questo caso stiamo perdendo davvero in bellezza e che la correità nostra, di individui e nazioni, nel surriscaldamento del pianeta abbia suscitato la giusta vendetta della natura: mentre ci gongoliamo tra consumi e abusi, dobbiamo rinunciare ad un tesoro di sensazioni e suggestioni che non ha prezzo, perché è troppo prezioso.
Ognuno di noi molisani è la neve, nel ricordo e nel desiderio: l’emozione di un’avventura, le note di un sapore o di un odore, il fascino del paesaggio ovattato nel silenzio, la gioia assoluta dei fiocchi che cadono disegnando volute e ghirigori, la maestosità severa della coltre bianca, che tutto copre.
Puntellati dal candore della neve, vantiamo molti inverni della nostra vita e la neve la amiamo.
Lasciamo stare i molisani della costa, e lasciamo pure stare quelli che “odio la neve perché ti sporchi” (!), o quelli che la neve è una seccatura, perché magari non è dato tirare col fuoriserie e i tacchi a spillo, o perché si è troppo coperti da potersi notare la sberluccicante vetrina personale: non contemplano, non hanno il gusto delle romanticherie un po’eteree e fatue, eppur necessarie a sganciare peso terreno dalla vita. Le mie parole le schiverebbero.
È dicembre ormai, e della neve nessuna traccia. Io spero, però, insieme a chissà quanti bambini e anche a un buon numero di adulti, che dello sporco della neve se la ride e a cui piace guardare, oltre che essere guardati. E intanto vado ricordando.
La gioia da piccola, quando da Milano si scendeva in Molise per il Natale e puntuale ci accoglieva la neve e mi pareva di vivere una fiaba; e mia nonna, imbacuccata tra mantelle e sciarpe, pur di non mettere il cappotto, che trovava scomodo per i suoi fuggi fuggi a piedi da casa di una sorella ad un’altra; e ricordo quell’arnese che, chissà come, chiamavano “il monaco” e io pensavo ai francescani e mai che cogliessi il minimo nesso: era l’oggetto del desiderio, perché casa di nonna era fredda e il letto caldo la sera, dopo una giornata di scorribande sulla neve, era un conforto impareggiabile; e ricordo il braciere nel mezzo del piccolo soggiorno, che non scaldava niente, se non un po’i piedi e molto il cuore, e nonna che intanto sferruzzava o rileggeva il suo De Amicis, reliquia di un’infanzia ingiustamente privata della scuola, logorato dall’uso, le pagine de Dagli Appennini alle Ande, specie. Fuori un presepe e in lontananza alberi e campi sopraffati di bianco.
E ricordo con la neve il vin cotto, e il profumo delle bucce di mandarino sopra la stufa e, ben oltre l’infanzia, la lavorazione del maiale, con quell’odore caldo di grasso che invece che farci a botte col refrigerio della neve ci si sposa tanto bene.
Ancora, le buste della spazzatura sormontate di cassette della frutta a fare da slittini e le discese che mi parevano a prova d’eroe e che a guardarle ora sono modesti dossi, e lo sfinimento a palle di neve fin oltre il liceo, e le gambe pesanti a camminare su e giù da casa mia a Campobasso; e un anno ricordo, già adulta, la fatica indicibile per risalire sotto una bufera di neve a Ferrazzano per stanare, sepolta in una casa antica e gelida, una vecchia zia che aveva deciso di non dare notizie di sé, perché tanto stava bene (quindi, perché sprecarci i soldi dello scatto telefonico?): mi intravide dalla finestra, solo gli occhi scoperti dalla nube di lane in cui si era ammantata, venne ad aprirmi, “tu scie’?” disse, dissimulando il piacere, poi un caffé di epoca imprecisata e la mia rabbia sfumò in compassione. E ricordo l’emozione, quando lontano da casa, studiando Orazio, davanti all’incipit celeberrimo e bellissimo Vides ut alta stet nive candidum/ Soracte nec iam sustineant onus/ silvae laborantes geluque flumina constierint acuto? (Laggiú si staglia il Soratte, vedi?, con candido manto di neve. Stremati, faticano i rami a reggere il peso. Per il gelo tagliente, fiumi e ruscelli si sono rappresi), ripensai alla mia terra e alla sua neve.
La mia terra, che tra distanze e conflitti, rimane pur sempre la mia.
Saba, ricordo, il poeta delle piccole cose, Neve che turbini in alto ed avvolgi le cose di un tacito manto e soprattutto Ada Negri, Sui campi e sulle strade silenziosa e lieve volteggiando la neve cade. E tanto altro ancora.
È attualmente riunita a Copenaghen la quindicesima conferenza delle parti dell’UNFCC, la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite: i delegati governativi dovranno cercare di raggiungere il consenso su un nuovo accordo climatico da attuarsi dopo il 2012, quando scadrà il protocollo di Kyoto.
Gli esiti, mentre che scrivo, sono ancora incerti, ma è chiaro a tutti che, senza l’impe- gno a diminuire in maniera significativa le emissioni di anidride carbonica specie da parte dei paesi che ne sono maggiormente responsabili, il futuro del nostro pianeta sarà gravemente compromesso.
Le responsabilità, però, si declinano in grande e in piccolo, riguardano tutti ed ognuno.
La consapevolezza ambientale non può più essere vista come un lusso da fanatici, né come condanna certa ad un futuro di sacrifici; anzi, forse è vero l’esatto contrario, e non a caso milioni di individui e intere comunità stanno accettando la sfida del cambiamento dei loro stili di vita, dai consumi di energia elettrica, alle scelte alimentari, all’impiego del tempo libero, agli spostamenti..
A proposito: delle emissioni di anidride carbonica, il 27% è attribuito agli scarichi di auto e aerei, tanto che la Fondazione per lo sviluppo sostenibile calcola che basterebbe spostare un quarto dei trasporti dai cieli o dalle strade sui binari entro il 2020 per ridurre le emissioni globali del 20%.
Noi in Molise, si va in direzione ostinata e contraria: una terra che almeno offre il piacere di viaggiare osservando un paesaggio incantevole, di camminare respirando aria pura, le ferrovie sono allo sfascio, le auto mediamente possedute dalle famiglia in aumento, affermata la tendenza ad adoperare qualsivoglia locomotore per spostamenti pur minimi.
Dovremmo, io credo, pensarci.
Prima di amare, – dice un proverbio turco – impara a camminare sulla neve senza lasciare traccia.
Neanche faremmo l’apprendista- to. ☺
LucianaZingaro@libero.it
È bianca e profuma.
Per un cruciverba, così definirei la neve.
Perché profuma, la neve.
Né Marsiglia né vaniglia, ma un fresco ineguagliabile, appena acre, da solleticare le narici e predisporle ad ogni altro effluvio. Cosicché, quando c’è la neve, sarà che i polmoni si aprono, tutto e tutti acquistano al netto il loro odore. E se non è un odore gran che gradevole, fa niente: perché “lei” – la neve – sorvola e sovrasta, condona e perdona, con quella sua fragranza pura e delicata espansa ovunque, e quel bianco integrale, casto, che avvolge gli occhi.
La nostra era fino a non molto tempo fa una terra di nevicate appetitose, memorabili; col passare del tempo le cose sono cambiate, fino alle ingloriose nevicate degli ultimi anni, una neve “fuffa” – dico io – che posa e subito scioglie, perché le temperature precipitano a picco e repentinamente si rialzano, a momenti primaverili.
Sempre, naturalmente – viva Dio – le cose cambiano e le geremiadi dei laudatores temporis acti, quelli che il passato, anche con la clava e i dinosauri ad inseguirti sul ghiaccio, è meglio ad ogni costo, sono insopportabili. D’accordo.
Ma l’impressione è che in questo caso stiamo perdendo davvero in bellezza e che la correità nostra, di individui e nazioni, nel surriscaldamento del pianeta abbia suscitato la giusta vendetta della natura: mentre ci gongoliamo tra consumi e abusi, dobbiamo rinunciare ad un tesoro di sensazioni e suggestioni che non ha prezzo, perché è troppo prezioso.
Ognuno di noi molisani è la neve, nel ricordo e nel desiderio: l’emozione di un’avventura, le note di un sapore o di un odore, il fascino del paesaggio ovattato nel silenzio, la gioia assoluta dei fiocchi che cadono disegnando volute e ghirigori, la maestosità severa della coltre bianca, che tutto copre.
Puntellati dal candore della neve, vantiamo molti inverni della nostra vita e la neve la amiamo.
Lasciamo stare i molisani della costa, e lasciamo pure stare quelli che “odio la neve perché ti sporchi” (!), o quelli che la neve è una seccatura, perché magari non è dato tirare col fuoriserie e i tacchi a spillo, o perché si è troppo coperti da potersi notare la sberluccicante vetrina personale: non contemplano, non hanno il gusto delle romanticherie un po’eteree e fatue, eppur necessarie a sganciare peso terreno dalla vita. Le mie parole le schiverebbero.
È dicembre ormai, e della neve nessuna traccia. Io spero, però, insieme a chissà quanti bambini e anche a un buon numero di adulti, che dello sporco della neve se la ride e a cui piace guardare, oltre che essere guardati. E intanto vado ricordando.
La gioia da piccola, quando da Milano si scendeva in Molise per il Natale e puntuale ci accoglieva la neve e mi pareva di vivere una fiaba; e mia nonna, imbacuccata tra mantelle e sciarpe, pur di non mettere il cappotto, che trovava scomodo per i suoi fuggi fuggi a piedi da casa di una sorella ad un’altra; e ricordo quell’arnese che, chissà come, chiamavano “il monaco” e io pensavo ai francescani e mai che cogliessi il minimo nesso: era l’oggetto del desiderio, perché casa di nonna era fredda e il letto caldo la sera, dopo una giornata di scorribande sulla neve, era un conforto impareggiabile; e ricordo il braciere nel mezzo del piccolo soggiorno, che non scaldava niente, se non un po’i piedi e molto il cuore, e nonna che intanto sferruzzava o rileggeva il suo De Amicis, reliquia di un’infanzia ingiustamente privata della scuola, logorato dall’uso, le pagine de Dagli Appennini alle Ande, specie. Fuori un presepe e in lontananza alberi e campi sopraffati di bianco.
E ricordo con la neve il vin cotto, e il profumo delle bucce di mandarino sopra la stufa e, ben oltre l’infanzia, la lavorazione del maiale, con quell’odore caldo di grasso che invece che farci a botte col refrigerio della neve ci si sposa tanto bene.
Ancora, le buste della spazzatura sormontate di cassette della frutta a fare da slittini e le discese che mi parevano a prova d’eroe e che a guardarle ora sono modesti dossi, e lo sfinimento a palle di neve fin oltre il liceo, e le gambe pesanti a camminare su e giù da casa mia a Campobasso; e un anno ricordo, già adulta, la fatica indicibile per risalire sotto una bufera di neve a Ferrazzano per stanare, sepolta in una casa antica e gelida, una vecchia zia che aveva deciso di non dare notizie di sé, perché tanto stava bene (quindi, perché sprecarci i soldi dello scatto telefonico?): mi intravide dalla finestra, solo gli occhi scoperti dalla nube di lane in cui si era ammantata, venne ad aprirmi, “tu scie’?” disse, dissimulando il piacere, poi un caffé di epoca imprecisata e la mia rabbia sfumò in compassione. E ricordo l’emozione, quando lontano da casa, studiando Orazio, davanti all’incipit celeberrimo e bellissimo Vides ut alta stet nive candidum/ Soracte nec iam sustineant onus/ silvae laborantes geluque flumina constierint acuto? (Laggiú si staglia il Soratte, vedi?, con candido manto di neve. Stremati, faticano i rami a reggere il peso. Per il gelo tagliente, fiumi e ruscelli si sono rappresi), ripensai alla mia terra e alla sua neve.
La mia terra, che tra distanze e conflitti, rimane pur sempre la mia.
Saba, ricordo, il poeta delle piccole cose, Neve che turbini in alto ed avvolgi le cose di un tacito manto e soprattutto Ada Negri, Sui campi e sulle strade silenziosa e lieve volteggiando la neve cade. E tanto altro ancora.
È attualmente riunita a Copenaghen la quindicesima conferenza delle parti dell’UNFCC, la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite: i delegati governativi dovranno cercare di raggiungere il consenso su un nuovo accordo climatico da attuarsi dopo il 2012, quando scadrà il protocollo di Kyoto.
Gli esiti, mentre che scrivo, sono ancora incerti, ma è chiaro a tutti che, senza l’impe- gno a diminuire in maniera significativa le emissioni di anidride carbonica specie da parte dei paesi che ne sono maggiormente responsabili, il futuro del nostro pianeta sarà gravemente compromesso.
Le responsabilità, però, si declinano in grande e in piccolo, riguardano tutti ed ognuno.
La consapevolezza ambientale non può più essere vista come un lusso da fanatici, né come condanna certa ad un futuro di sacrifici; anzi, forse è vero l’esatto contrario, e non a caso milioni di individui e intere comunità stanno accettando la sfida del cambiamento dei loro stili di vita, dai consumi di energia elettrica, alle scelte alimentari, all’impiego del tempo libero, agli spostamenti..
A proposito: delle emissioni di anidride carbonica, il 27% è attribuito agli scarichi di auto e aerei, tanto che la Fondazione per lo sviluppo sostenibile calcola che basterebbe spostare un quarto dei trasporti dai cieli o dalle strade sui binari entro il 2020 per ridurre le emissioni globali del 20%.
Noi in Molise, si va in direzione ostinata e contraria: una terra che almeno offre il piacere di viaggiare osservando un paesaggio incantevole, di camminare respirando aria pura, le ferrovie sono allo sfascio, le auto mediamente possedute dalle famiglia in aumento, affermata la tendenza ad adoperare qualsivoglia locomotore per spostamenti pur minimi.
Dovremmo, io credo, pensarci.
Prima di amare, – dice un proverbio turco – impara a camminare sulla neve senza lasciare traccia.
Né Marsiglia né vaniglia, ma un fresco ineguagliabile, appena acre, da solleticare le narici e predisporle ad ogni altro effluvio. Cosicché, quando c’è la neve, sarà che i polmoni si aprono, tutto e tutti acquistano al netto il loro odore. E se non è un odore gran che gradevole, fa niente: perché “lei” – la neve – sorvola e sovrasta, condona e perdona, con quella sua fragranza pura e delicata espansa ovunque, e quel bianco integrale, casto, che avvolge gli occhi.
La nostra era fino a non molto tempo fa una terra di nevicate appetitose, memorabili; col passare del tempo le cose sono cambiate, fino alle ingloriose nevicate degli ultimi anni, una neve “fuffa” – dico io – che posa e subito scioglie, perché le temperature precipitano a picco e repentinamente si rialzano, a momenti primaverili.
Sempre, naturalmente – viva Dio – le cose cambiano e le geremiadi dei laudatores temporis acti, quelli che il passato, anche con la clava e i dinosauri ad inseguirti sul ghiaccio, è meglio ad ogni costo, sono insopportabili. D’accordo.
Ma l’impressione è che in questo caso stiamo perdendo davvero in bellezza e che la correità nostra, di individui e nazioni, nel surriscaldamento del pianeta abbia suscitato la giusta vendetta della natura: mentre ci gongoliamo tra consumi e abusi, dobbiamo rinunciare ad un tesoro di sensazioni e suggestioni che non ha prezzo, perché è troppo prezioso.
Ognuno di noi molisani è la neve, nel ricordo e nel desiderio: l’emozione di un’avventura, le note di un sapore o di un odore, il fascino del paesaggio ovattato nel silenzio, la gioia assoluta dei fiocchi che cadono disegnando volute e ghirigori, la maestosità severa della coltre bianca, che tutto copre.
Puntellati dal candore della neve, vantiamo molti inverni della nostra vita e la neve la amiamo.
Lasciamo stare i molisani della costa, e lasciamo pure stare quelli che “odio la neve perché ti sporchi” (!), o quelli che la neve è una seccatura, perché magari non è dato tirare col fuoriserie e i tacchi a spillo, o perché si è troppo coperti da potersi notare la sberluccicante vetrina personale: non contemplano, non hanno il gusto delle romanticherie un po’eteree e fatue, eppur necessarie a sganciare peso terreno dalla vita. Le mie parole le schiverebbero.
È dicembre ormai, e della neve nessuna traccia. Io spero, però, insieme a chissà quanti bambini e anche a un buon numero di adulti, che dello sporco della neve se la ride e a cui piace guardare, oltre che essere guardati. E intanto vado ricordando.
La gioia da piccola, quando da Milano si scendeva in Molise per il Natale e puntuale ci accoglieva la neve e mi pareva di vivere una fiaba; e mia nonna, imbacuccata tra mantelle e sciarpe, pur di non mettere il cappotto, che trovava scomodo per i suoi fuggi fuggi a piedi da casa di una sorella ad un’altra; e ricordo quell’arnese che, chissà come, chiamavano “il monaco” e io pensavo ai francescani e mai che cogliessi il minimo nesso: era l’oggetto del desiderio, perché casa di nonna era fredda e il letto caldo la sera, dopo una giornata di scorribande sulla neve, era un conforto impareggiabile; e ricordo il braciere nel mezzo del piccolo soggiorno, che non scaldava niente, se non un po’i piedi e molto il cuore, e nonna che intanto sferruzzava o rileggeva il suo De Amicis, reliquia di un’infanzia ingiustamente privata della scuola, logorato dall’uso, le pagine de Dagli Appennini alle Ande, specie. Fuori un presepe e in lontananza alberi e campi sopraffati di bianco.
E ricordo con la neve il vin cotto, e il profumo delle bucce di mandarino sopra la stufa e, ben oltre l’infanzia, la lavorazione del maiale, con quell’odore caldo di grasso che invece che farci a botte col refrigerio della neve ci si sposa tanto bene.
Ancora, le buste della spazzatura sormontate di cassette della frutta a fare da slittini e le discese che mi parevano a prova d’eroe e che a guardarle ora sono modesti dossi, e lo sfinimento a palle di neve fin oltre il liceo, e le gambe pesanti a camminare su e giù da casa mia a Campobasso; e un anno ricordo, già adulta, la fatica indicibile per risalire sotto una bufera di neve a Ferrazzano per stanare, sepolta in una casa antica e gelida, una vecchia zia che aveva deciso di non dare notizie di sé, perché tanto stava bene (quindi, perché sprecarci i soldi dello scatto telefonico?): mi intravide dalla finestra, solo gli occhi scoperti dalla nube di lane in cui si era ammantata, venne ad aprirmi, “tu scie’?” disse, dissimulando il piacere, poi un caffé di epoca imprecisata e la mia rabbia sfumò in compassione. E ricordo l’emozione, quando lontano da casa, studiando Orazio, davanti all’incipit celeberrimo e bellissimo Vides ut alta stet nive candidum/ Soracte nec iam sustineant onus/ silvae laborantes geluque flumina constierint acuto? (Laggiú si staglia il Soratte, vedi?, con candido manto di neve. Stremati, faticano i rami a reggere il peso. Per il gelo tagliente, fiumi e ruscelli si sono rappresi), ripensai alla mia terra e alla sua neve.
La mia terra, che tra distanze e conflitti, rimane pur sempre la mia.
Saba, ricordo, il poeta delle piccole cose, Neve che turbini in alto ed avvolgi le cose di un tacito manto e soprattutto Ada Negri, Sui campi e sulle strade silenziosa e lieve volteggiando la neve cade. E tanto altro ancora.
È attualmente riunita a Copenaghen la quindicesima conferenza delle parti dell’UNFCC, la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite: i delegati governativi dovranno cercare di raggiungere il consenso su un nuovo accordo climatico da attuarsi dopo il 2012, quando scadrà il protocollo di Kyoto.
Gli esiti, mentre che scrivo, sono ancora incerti, ma è chiaro a tutti che, senza l’impe- gno a diminuire in maniera significativa le emissioni di anidride carbonica specie da parte dei paesi che ne sono maggiormente responsabili, il futuro del nostro pianeta sarà gravemente compromesso.
Le responsabilità, però, si declinano in grande e in piccolo, riguardano tutti ed ognuno.
La consapevolezza ambientale non può più essere vista come un lusso da fanatici, né come condanna certa ad un futuro di sacrifici; anzi, forse è vero l’esatto contrario, e non a caso milioni di individui e intere comunità stanno accettando la sfida del cambiamento dei loro stili di vita, dai consumi di energia elettrica, alle scelte alimentari, all’impiego del tempo libero, agli spostamenti..
A proposito: delle emissioni di anidride carbonica, il 27% è attribuito agli scarichi di auto e aerei, tanto che la Fondazione per lo sviluppo sostenibile calcola che basterebbe spostare un quarto dei trasporti dai cieli o dalle strade sui binari entro il 2020 per ridurre le emissioni globali del 20%.
Noi in Molise, si va in direzione ostinata e contraria: una terra che almeno offre il piacere di viaggiare osservando un paesaggio incantevole, di camminare respirando aria pura, le ferrovie sono allo sfascio, le auto mediamente possedute dalle famiglia in aumento, affermata la tendenza ad adoperare qualsivoglia locomotore per spostamenti pur minimi.
Dovremmo, io credo, pensarci.
Prima di amare, – dice un proverbio turco – impara a camminare sulla neve senza lasciare traccia.
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