24 marzo 1980 ore 18,26 Oscar Arnulfo Romero, vescovo di San Salvador, sta celebrando l’eucaristia. Un breve sibilo, poi un boato, il cuore dell’arcivescovo è spaccato, il carnefice ha centrato il bersaglio. Quel lunedì Monsignore, come familiarmente lo chiamano, non offre pane e vino sull’altare ma la sua vita. I poveri e gli oppressi perdono un amico e un difensore, ma la Chiesa di Dio trova un nuovo santo martire: san Romero d’America.
Non accade per caso né tanto meno per sbaglio. Oscar Romero si è incamminato sulla strada della profezia e dunque della morte violenta. E’ lui stesso a dargli significato, come Cristo: “Sono stato frequentemente minacciato di morte , dirà il 9 marzo. Come cristiano non credo nella morte senza risurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza iattanza, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, cioè tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero (…). Già da adesso offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador(…). La mia morte, se accettata da Dio, sia per la liberazione del mio popolo e come testimonianza di speranza per il futuro”.
Con l’omelia del 23 marzo firma la sua condanna a morte. Dopo aver elencato gli ultimi orrori di cui si sono macchiate le forze armate dice: “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli! Siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: Non ammazzare(…). In nome di Dio, allora, in nome del popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione”.
Nato nel 1917 a Ciudad Barrios, in Salvador, nel Centra America, una piccola nazione dominata da poche famiglie che detengono terre, potere e privilegi, a 25 anni viene ordinato prete. E’ tutt’altro che progressista. Rigido nell’applicare la disciplina ecclesiastica, ma premuroso verso i poveri. E’ più ammirato che amato. L’unica liberazione che annuncia è quella dal peccato. Nel 1970 dal Vaticano arriva la nomina episcopale perché fedele al Concilio ma fortemente reazionario e allineato col potere dominante. Per lo stesso motivo nel 1977 viene designato come arcivescovo di San Salvador.
A pochi giorni dal suo ingresso in diocesi gli uccidono padre Rutilio Grande, suo caro amico, che spronava la gente a rivendicare i diritti defraudati: “Dio non sta sulle nuvole, coricato su un’amaca. Dio agisce e desidera che voi costruiate il suo regno qui, sulla terra”.
Un martire dà vita a un altro martire perché davanti a quella bara, nella lunga notte di veglia, gli occhi di Romero si aprono e comprende che per essere fedele al vangelo deve dar voce ai senza voce, che la logica della violenza viene da un sistema di esclusione della maggioranza, che il suo posto è accanto alle vittime, che gloria di Dio è che il povero viva.
Incompreso dal Vaticano, osteggiato da quasi tutti i vescovi salvadoregni, accusato di comunismo da quanti devono salvaguardare i loro interessi, Romero domenica dopo domenica attraverso una radio che porta la sua voce al di fuori della cattedrale, proclama la parola di Dio interpretando i fatti alla luce del progetto di Dio nella storia. Denuncia, annuncia, anima la speranza, suscita i grandi sogni di fraternità. “Io credo che lungo la storia, dirà un grande biblista, ci siano stati non più di dieci autentici profeti nella linea della tradizione biblica. Monsignor Romero è uno di quelli”.
Un uomo così dava fastidio, doveva morire e lo uccisero. ☺
24 marzo 1980 ore 18,26 Oscar Arnulfo Romero, vescovo di San Salvador, sta celebrando l’eucaristia. Un breve sibilo, poi un boato, il cuore dell’arcivescovo è spaccato, il carnefice ha centrato il bersaglio. Quel lunedì Monsignore, come familiarmente lo chiamano, non offre pane e vino sull’altare ma la sua vita. I poveri e gli oppressi perdono un amico e un difensore, ma la Chiesa di Dio trova un nuovo santo martire: san Romero d’America.
Non accade per caso né tanto meno per sbaglio. Oscar Romero si è incamminato sulla strada della profezia e dunque della morte violenta. E’ lui stesso a dargli significato, come Cristo: “Sono stato frequentemente minacciato di morte , dirà il 9 marzo. Come cristiano non credo nella morte senza risurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza iattanza, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, cioè tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero (…). Già da adesso offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador(…). La mia morte, se accettata da Dio, sia per la liberazione del mio popolo e come testimonianza di speranza per il futuro”.
Con l’omelia del 23 marzo firma la sua condanna a morte. Dopo aver elencato gli ultimi orrori di cui si sono macchiate le forze armate dice: “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli! Siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: Non ammazzare(…). In nome di Dio, allora, in nome del popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione”.
Nato nel 1917 a Ciudad Barrios, in Salvador, nel Centra America, una piccola nazione dominata da poche famiglie che detengono terre, potere e privilegi, a 25 anni viene ordinato prete. E’ tutt’altro che progressista. Rigido nell’applicare la disciplina ecclesiastica, ma premuroso verso i poveri. E’ più ammirato che amato. L’unica liberazione che annuncia è quella dal peccato. Nel 1970 dal Vaticano arriva la nomina episcopale perché fedele al Concilio ma fortemente reazionario e allineato col potere dominante. Per lo stesso motivo nel 1977 viene designato come arcivescovo di San Salvador.
A pochi giorni dal suo ingresso in diocesi gli uccidono padre Rutilio Grande, suo caro amico, che spronava la gente a rivendicare i diritti defraudati: “Dio non sta sulle nuvole, coricato su un’amaca. Dio agisce e desidera che voi costruiate il suo regno qui, sulla terra”.
Un martire dà vita a un altro martire perché davanti a quella bara, nella lunga notte di veglia, gli occhi di Romero si aprono e comprende che per essere fedele al vangelo deve dar voce ai senza voce, che la logica della violenza viene da un sistema di esclusione della maggioranza, che il suo posto è accanto alle vittime, che gloria di Dio è che il povero viva.
Incompreso dal Vaticano, osteggiato da quasi tutti i vescovi salvadoregni, accusato di comunismo da quanti devono salvaguardare i loro interessi, Romero domenica dopo domenica attraverso una radio che porta la sua voce al di fuori della cattedrale, proclama la parola di Dio interpretando i fatti alla luce del progetto di Dio nella storia. Denuncia, annuncia, anima la speranza, suscita i grandi sogni di fraternità. “Io credo che lungo la storia, dirà un grande biblista, ci siano stati non più di dieci autentici profeti nella linea della tradizione biblica. Monsignor Romero è uno di quelli”.
Un uomo così dava fastidio, doveva morire e lo uccisero. ☺
24 marzo 1980 ore 18,26 Oscar Arnulfo Romero, vescovo di San Salvador, sta celebrando l’eucaristia. Un breve sibilo, poi un boato, il cuore dell’arcivescovo è spaccato, il carnefice ha centrato il bersaglio. Quel lunedì Monsignore, come familiarmente lo chiamano, non offre pane e vino sull’altare ma la sua vita. I poveri e gli oppressi perdono un amico e un difensore, ma la Chiesa di Dio trova un nuovo santo martire: san Romero d’America.
Non accade per caso né tanto meno per sbaglio. Oscar Romero si è incamminato sulla strada della profezia e dunque della morte violenta. E’ lui stesso a dargli significato, come Cristo: “Sono stato frequentemente minacciato di morte , dirà il 9 marzo. Come cristiano non credo nella morte senza risurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza iattanza, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, cioè tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero (…). Già da adesso offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador(…). La mia morte, se accettata da Dio, sia per la liberazione del mio popolo e come testimonianza di speranza per il futuro”.
Con l’omelia del 23 marzo firma la sua condanna a morte. Dopo aver elencato gli ultimi orrori di cui si sono macchiate le forze armate dice: “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli! Siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: Non ammazzare(…). In nome di Dio, allora, in nome del popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione”.
Nato nel 1917 a Ciudad Barrios, in Salvador, nel Centra America, una piccola nazione dominata da poche famiglie che detengono terre, potere e privilegi, a 25 anni viene ordinato prete. E’ tutt’altro che progressista. Rigido nell’applicare la disciplina ecclesiastica, ma premuroso verso i poveri. E’ più ammirato che amato. L’unica liberazione che annuncia è quella dal peccato. Nel 1970 dal Vaticano arriva la nomina episcopale perché fedele al Concilio ma fortemente reazionario e allineato col potere dominante. Per lo stesso motivo nel 1977 viene designato come arcivescovo di San Salvador.
A pochi giorni dal suo ingresso in diocesi gli uccidono padre Rutilio Grande, suo caro amico, che spronava la gente a rivendicare i diritti defraudati: “Dio non sta sulle nuvole, coricato su un’amaca. Dio agisce e desidera che voi costruiate il suo regno qui, sulla terra”.
Un martire dà vita a un altro martire perché davanti a quella bara, nella lunga notte di veglia, gli occhi di Romero si aprono e comprende che per essere fedele al vangelo deve dar voce ai senza voce, che la logica della violenza viene da un sistema di esclusione della maggioranza, che il suo posto è accanto alle vittime, che gloria di Dio è che il povero viva.
Incompreso dal Vaticano, osteggiato da quasi tutti i vescovi salvadoregni, accusato di comunismo da quanti devono salvaguardare i loro interessi, Romero domenica dopo domenica attraverso una radio che porta la sua voce al di fuori della cattedrale, proclama la parola di Dio interpretando i fatti alla luce del progetto di Dio nella storia. Denuncia, annuncia, anima la speranza, suscita i grandi sogni di fraternità. “Io credo che lungo la storia, dirà un grande biblista, ci siano stati non più di dieci autentici profeti nella linea della tradizione biblica. Monsignor Romero è uno di quelli”.
Un uomo così dava fastidio, doveva morire e lo uccisero. ☺
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