Ehi, mr. tambourine man!
4 Maggio 2017
La Fonte (351 articles)
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Ehi, mr. tambourine man!

Lode sia al Nettuno di Nerone

le titaniche vele all’alba

tutti gridano

“da che parte stai?”

Ed Ezra Pound e T.S. Eliot

lottano nella torre di comando

mentre danzatrici di calipso li deridono

e pescatori presentano fiori

fra le finestre del mare

dove graziose sirene scivolano

e nessuno deve preoccuparsi troppo

del vicolo della desolazione.

(Desolation row, 1965, Bob Dylan)

Non è un caso che Sara Danius, nell’annunciare a nome dell’Accademia svedese l’attribuzione del Nobel per la letteratura a Dylan, abbia citato Omero e i lirici greci, “che scrissero testi che dovevano essere interpretati o ascoltati anche con l’accompagnamento di strumenti musicali”. Dylan appartiene alla stirpe degli aedi, dei rapsodi, dei trovatori. La sua dimensione è quella della tradizione orale: la poesia della voce, prima ancora che quella della scrittura. Perché l’oralità non è fatta solo di parole, ma anche di respiro, intonazione, ritmo, corporeità. Tutte componenti inscindibili – tanto quanto la musica – di quella particolarissima arte chiamata canzone.

“Quando venne il mio turno di accettare il diploma, l’oratore che mi presentava disse più o meno che mi ero distinto in carminibus canendis”, ricorda Dylan nel primo volume della sua autobiografia, “Chronicles”. Poi, l’oratore aggiunse che Dylan continuava a essere “l’autentica espressione della turbata e impegnata coscienza della Giovane America”. “Feci quasi un salto. Un tremito mi scosse tutto, ma rimasi senza espressione. La turbata coscienza della Giovane America! Non riuscivo a crederci. Ci ero cascato un’altra volta. Avrebbe potuto dire molte cose, avrebbe potuto almeno accennare alla mia musica!”. Era il giugno del 1970, l’università di Princeton assegnò una laurea ad honorem a Bob Dylan. Era solo il primo dei riconoscimenti accademici che avrebbero costellato la sua carriera E forse proprio per questo Dylan ha sentito il bisogno di raccontare quel giorno in una canzone. “Day Of The Locusts”, l’ha intitolata: unico desiderio, fra il canto delle locuste, la fuga.

Sono passati quasi cinquant’anni, da allora, e Dylan ha ricevuto ormai ogni genere di premi. Grammy, Oscar, Medaglia della Libertà, persino il Pulitzer. E ora, il Nobel per la letteratura.

Chissà se avrà sentito ancora il canto delle locuste. Chissà se avrà pensato ancora che avrebbero potuto almeno accennare alla sua musica. Il giorno dell’ annuncio, Dylan è salito sul palco a Las Vegas e ha attaccato come tutte le sere con “Rainy Day Women #12 & 35”. Al Nobel, nemmeno un accenno. Non che i premi, per lui, non significhino nulla. Non li ha mai rifiutati, compreso il diploma di Princeton: “Ne avevo bisogno. Comunque lo si guardasse, toccasse o annusasse, comunicava rispettabilità e conteneva qualche traccia dello spirito dell’universo”. Nel 2012, in una lunga intervista a Rolling Stone, Mikal Gilmore gli ha chiesto per chi accettasse tutti i suoi riconoscimenti: “Li accetto per me e solo per me. Non li considero sotto nessun’altra luce”. C’è una buona dose di vanità e di senso di riscatto, nel ricevere la legittimazione del mondo accademico.

“Una poesia è una persona nuda (…) Qualcuno dice che io sia un poeta”. “Wordsworth e Shelley sono poeti. Ginsberg è un poeta. Io non sono un poeta”, ha aggiunto ancora più esplicitamente ai tempi dell’uscita di “Time Out Of Mind”. E in una delle celebri interviste del 1965, rispondendo direttamente alla fatidica domanda (“Si considera più un cantante o un poeta?”), ha sfoderato una delle sue tipiche rivelazioni in forma di sciarada: “Mi considero soprattutto un song-and-dance man. “Le ombre stanno calando e sono stato qui tutto il giorno fa troppo caldo per dormire e il tempo corre via sento come se la mia anima fosse diventata d’acciaio ho ancora delle cicatrici che il sole non ha guarito non c’è neanche abbastanza spazio per essere da qualche parte non è ancora buio, ma lo sarà presto” (Bob Dylan 1997-“Time out of a mind”).

La crisi della borghesia è, essenzialmente, alla fine del suo mandato sociale. La società dello spettacolo si è fatta volontaria. Lʼadesione alle forme egemoni è totale ma spontanea. Lʼintellettuale alla fine della propria agonia storica chiede una simulazione di consistenza. In un certo senso è del tutto collaborativo con il proprio carnefice. Esige il premio Nobel come una sacra unzione, e va a ritirarlo con compunta devozione. Il risentimento è sempre una pulsione di morte.

Questo è forse lʼaspetto più significativo di tutta la vicenda che riguarda Bob Dylan, il Nobel e lo sdegno erudito che lʼaccompagna.

Dylan viene oggi riconosciuto simbolicamente come il rappresentante di una stagione che per cinque decenni, dagli anni cinquanta agli ultimi novanta, dal beat al grunge, ha espresso contenuti testuali in forma di musica popolare. Un esperimento esaurito, forse persino fallito. Ma di esperimento si è trattato, storicamente inedito e di grande rilievo, nella misura in cui una forma di scapigliatura letteraria, più o meno naïve e più o meno arcaico-visionaria, per cinquantʼanni ha saputo trasmettere parole dentro la storia (cioè dentro la comunicazione di massa) cultura.

Roberto Roversi insegnava che la poesia ha in Jim Morrison il più importante poeta americano del Novecento. Per questo considerava la canzone popolare della prima guerra mondiale più significativa dellʼopera di Ungaretti. Per questo diceva, in unʼintervista oggi raccolta in Tre poesie e alcune prose (Sossella Editore; a cura di Marco Giovenale) che un romanzo di Kerouac fa la storia, mentre un romanzo di Gadda fa la storia della letteratura.

Nella parte seconda de LʼItalia sepolta sotto la neve, “La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche” (già edito sotto il nome de La partita di calcio nel 2001), infatti Che Guevara, Glenn Gould, Jim Morrison e DʼAubigné partecipano alla stessa battaglia.

“Se la parola per molti è indecifrabile / meglio con uno straccio trovato per terra / fare qualche segno essenziale / perché i tempi sono i boschi neri di Brecht, / sono tempi di guerra.” (Roberto Roversi, Le descrizioni in atto).

Lo sdegno erudito per il Nobel a Bob Dylan, la disanima accurata dei testi a dimostrare lʼovvio, lo conferma: mai ambiente letterario quanto il presente fu più distante dal pensiero estetico di Roversi. Nel frattempo Bob Dylan ci sta dando unʼaltra lezione di poesia.

Per me Dylan sta cercando il fiammifero per accendere un altro fuoco (Roberto Roversi, l’Unità, articolo 1981).☺

 

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