gridare il dissenso   di Dario Carlone
27 Marzo 2012 Share

gridare il dissenso di Dario Carlone

 

Una volta li chiamavano No Global, poi la definizione è diventata New Global; a seguito della crisi finanziaria si sono raccolti attorno al motto “Occupy Wall Street” [pronuncia: occupai-uol-strit], dando vita a numerose iniziative per gridare il proprio dissenso nei confronti del mercato azionario. Da noi, in Italia, nella Val di Susa, sono conosciuti, loro malgrado, come No Tav, e la loro voce, in difesa del territorio, non viene ascoltata!

Cambiano i luoghi, i momenti, le situazioni; restano invece il disagio e la volontà di non farsi sopraffare.

 In un mondo globalizzato, ormai anche i termini linguistici assumono un carattere estensivo, globale: protester, così si indicano oggi quanti esprimono contestazione nei vari angoli della terra, i “manifestanti globali”. La definizione è impropria in quanto ogni azione di “protesta” non dovrebbe essere generica, bensì mirata e circoscritta, fondata su motivazioni valide e concrete, legata a luoghi e tempi precisi. Elemento comune però a quasi tutte le azioni è che esse sono rivolte soprattutto contro lo stile di vita imposto dalla civiltà occidentale, contro l’impero di una finanza che pervade le economie degli Stati con le sue regole assolute e privatistiche, contro il mancato rispetto del patrimonio ambientale.

Protester  è un sostantivo inglese, dal verbo protest: come molti altri nomi che derivano da un verbo è caratterizzato dal suffisso -er (casi simili sono play-er [pronuncia: pleier], giocatore, teach-er [pronuncia: ticer], insegnante, e così via). Il verbo protest, che l’inglese accoglie dalle lingue neolatine, significa, come si può intuire, non soltanto “contestare, rimostrare”, ma anche “affermare, asserire”. La radice latina pro traduce “a favore”, intendendo quindi che ciò che si attesta è a sostegno di una tesi, pro-testari. Valga a titolo esemplificativo il sostantivo “protestante”, coniato a seguito della Dieta di Spira del 1529, quando alcuni principi luterani “protestarono” contro (vale a dire non accettarono) la revoca dell'editto che consentiva loro di aderire al luteranesimo: il termine, nel significato di “testimone della propria fede”, che già nel Cinquecento gli era riconosciuto, venne poi esteso a tutte le chiese nate dalla Riforma.

Cosa spinge tanti uomini e donne ad abbandonare la maschera del conformismo e dell’acquiescenza per mettersi in discussione, accanto ad altre persone, nel sostenere un proprio punto di vista, nell’accogliere l’impegno per una lotta civile per il bene del proprio territorio, per stabilire (o ristabilire) un diritto negato? Non credo certo la voglia di protagonismo, la ricerca di visibilità ad ogni costo, le luci della ribalta! No, perché queste luci non si accendono quasi mai sulle “battaglie” umili ma decorose di persone che non intendono rinunciare a gestire la propria vita e quella delle comunità di appartenenza, che vogliono in prima persona sentire la responsabilità delle scelte che si compiono.

Dalle strade di New York alla Val di Susa si levano le voci di tanti protester del nostro “pianeta pieno di merci”, come lo definisce Franco Arminio, in cui, in era di globalizzazione, l’individualismo e l’egoismo sembrano regnare incontrastati: “pianeta in cui non sappiamo più farci coraggio e nel quale ognuno in cuor suo sembra aver dato addio a tutti gli altri”.

A queste voci vanno date risposte, non semplice “oscuramento” di visibilità. Le manifestazioni che spesso i media ridicolizzano, o in maniera riduttiva esiliano in ultima pagina, sono invece il segnale che scelte ed azioni hanno bisogno di condivisione e partecipazione quando riguardano il bene di tutti. Adeguarsi  alle decisioni prese da altri, rinunciare ad esprimere e a far conoscere punti di vista differenti, non aiuta la convivenza civile e pacifica, non contribuisce alla costruzione di un futuro per la società e per l’am- biente.

E ciò a tutte le latitudini. Anche nella nostra minuscola realtà regionale.☺

dario.carlone@tiscali.it

 

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