Guardare alle amazzoni
16 Novembre 2017
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Guardare alle amazzoni

Nel mio borsellino, colmo di stralci di memorie che raramente consulto e che tuttavia mi danno forza in quanto sono, c’è da qualche anno un biglietto che custodisco gelosamente; lo ha scritto mio padre e posto accanto alla macchinetta del caffè pronta all’uso, un giorno che io e mamma, reduci da un pomeriggio di lavoro, avevamo espresso il desiderio di un conforto energetico e saporito; il biglietto recita: “La macchinetta del caffè è pronta, per la cara Luciana e per la possente quercia Gina, oltre, naturalmente, che per me, umile lavoratore al servizio di tutti con sommo piacere, Carmine”.

Sono vissuta in una famiglia in cui la distinzione maschio/femmina non è mai esistita, se non come dato naturale: delle nonne, la materna, battagliera e, complice il bastone, pronta all’agonismo anche se claudicante, era devotamente rispettata dal marito, dai generi, dai nipoti maschi; la paterna dirigeva ed esortava il figlio, i fratelli, i nipoti, il marito ed era autorità indiscussa: ricordo quando d’estate nonno tornava stanco dalla campagna e cercava la sua Lucia, chiamandola con una punta d’orgoglio e tanto di reverenza, lei, che si era appena ritirata dal pomeriggio di cucito e uncinetto con le zie su un terrazzo dietro casa (ed io vi assistevo compunta, perché mi piaceva quel lento chiacchierare ad intervalli di silenzio), rispondeva concisa “E tu qua sctà?”, poi, mentre disponeva velocissima un uovo al pomodoro, pane, salsiccia, gli chiedeva della giornata trascorsa, discuteva vivace col marito e spesso lo rimbrottava coi suoi “Uagliò, ma tu va o viè’?” o “Uagliò, ma tu che dic?”, ai quali nonno non opponeva se non un sorriso paziente o una levata d’occhi al cielo.

Certo è stato un fatto di fortuna, ma la “questione femminile” per me non si è mai aperta, non l’ho vissuta dolorosamente sulla pelle; per me è stata sempre ed è aperta tuttora una questione di umanità, che trascende il genere e che mette in discussione i valori transgender della cura e del rispetto, della dignità, della devozione, della reciprocità: il maschio può essere betulla e la femmina rovere, e a vicenda, secondo i momenti e i bisogni, il resto è cultura del pregiudizio, è sotto-cultura, è inumanità.

Il termine femminicidio, così in voga, non lo prediligo, perché a mio avviso diminuisce la portata disumana dell’ assassinio, spostando sul piano dell’appartenenza ad un genere il crimine più orrendo, la violenza somma, che pone fine arbitraria al sommo dei doni, la vita. Non mi piace il termine femmincidio, nemmeno quando vuole indicare un’uccisone perpetrata al culmine di una serie di abusi, perché le violenze nei confronti di un bambino o di un disabile, di un anziano o di un diverso, di un maschio che non abbia gli attributi del leone o di un normalissimo chiunque per me hanno tutti lo stesso orribile sapore di crudeltà, di incultura, di bestialità.

Non so se effettivamente vi sia stata negli ultimi anni una recrudescenza del fenomeno della violenza sulle donne e di quello, che spesso al primo fa seguito, dell’uccisione delle donne stesse o se si tratti di una sorta di ridondanza mediatica del fenomeno; sarei propensa, però, a pensare che, tolta l’eco della notizia amplificata dai media, la nostra società stia peggiorando quanto al rispetto per la donna e sono certa che la colpa sia di noi tutti, che di noi tutti sia e sarà la responsabilità, finché come figlie, madri, sorelle, fidanzate, amiche, o come padri, fratelli, mariti, non avremo pronunciato con tutte le nostre forze, pur nel nostro piccolo, il nostro fermo “no” ad un’ immagine della donna che è fuorviante, in quanto relata esclusivamente alla sessualità e ad un’idea della sessualità malata, che fa del sesso non lo strumento di coronamento di un rapporto d’amore, ma il fine stesso di un rapporto, meglio se occasionale.

Mentre discutiamo accorati di femmincidio e violenza sulle donne, non rivediamo di un millimetro la vischiosità dei nostri atteggiamenti e delle nostre scelte quotidiane, della nostra attitudine a concepire la donna come una specie di sineddoche, un tutto per una sola parte o, se si vuole, una parte per il tutto: abbiamo detto addio alla grazia e al garbo, spesso vilipesi, e li confondiamo con la blandizie ammiccante e perbenista; abbiamo rifiutato la pazienza, l’accoglienza, la virtù dell’umiltà, le confondiamo con l’ assoggettamento supino, col silenzio opportunista; anche da donne per le donne scegliamo la mancanza di gravità e di sobrietà, perché è meno a rischio e riscuote premi di consenso e successo di sorta.

Nel mito greco le Amazzoni sono le donne che, private del seno, come suggerisce la stessa etimologia della parola in greco, indossano la faretra e, proprio perché libere dell’attributo femminile per antonomasia, caricano di maggior forza il braccio destinato a tendere l’arco: anche così, da combattenti, sono donne a pieno titolo e difendono la sostanza della dignitosa bellezza della donna, fatta di coraggio e carattere: forse a loro, al simbolo che esse incarnano, dovremmo guardare più che alle labbra tumide, alle creme dell’eterna giovinezza, al civettuolo blaterare sul nulla, se davvero crediamo in un cambiamento.☺

 

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