Il biancospino è una pianta graziosa, nota a tutti e molto diffusa lungo le strade di campagna, ai cui bordi spesso forma delle siepi spontanee. È un arbusto spinoso che può raggiungere i 5–6 metri di altezza con rami tortuosi che portano spine lunghe e molto pungenti. Curioso il nome col quale questa pianta viene indicata nel nostro dialetto: ’u spinepóce, forse proprio per le caratteristiche punture che provocano queste spine a contatto con la nostra pelle, simili al pizzico di una pulce. Ha foglie alterne munite di un breve picciolo e dotate di un bel colore verde intenso. I fiori bianchi, gradevolmente profumati, sono riuniti in infiorescenze a corimbo che sbocciano verso metà primavera tanto da essere scambiati con quelli del prugnolo (’u trigne), che invece fiorisce molto prima. I frutti sono delle drupe carnose di un bel colore rosso vivo, che in autunno rallegrano le siepi e rappresentano una fonte di alimenti per gli uccelli come tordi, merli e in particolare le cesene quando sono di passo. L’abbondante e profumata fioritura in primavera e i frutti rossi nel grigiore dell’inverno ne fanno una pianta decorativa e ornamentale. Di lento accrescimento, viene coltivata anche come soggetto per innesti.
Il legno del biancospino è molto duro, e, lavorato al tornio, rimane lucidissimo. Proprio per la durezza del legno, la tenacia e la longevità di queste piante, il grande scienziato greco Teofrasto diede al loro genere di appartenenza il nome Crataégus, basato sulla parola greca kratos=forza. Quanto alla specie, quella presente nel nostro territorio è la monògyna, così chiamata perché il suo fiore ha un solo pistillo, e quindi produce un solo seme per frutto. Altro nome col quale viene indicata questa pianta nel nostro dialetto è ’a c’rešèlle, termine che ricorre spesso nel tressette, gioco a coppie con carte napoletane, comunissimo nelle cantine presenti un tempo nel nostro paese e oggi nei bar che consentono il gioco delle carte. In particolare quando un giocatore non ha le carte giuste per rispondere alle chiamate del compagno si sente dire: “Eddo’ staje: ’n gòppe ’a c’rešèlle?”.
Il ritrovamento di noccioli nelle vestigia di alcuni insediamenti lacustri dimostrano che già nella preistoria gli uomini si cibavano delle drupe del biancospino. Anche la letteratura riporta alcuni esemplari celebri di biancospino che testimoniano la longevità della pianta, come quello della Contea di Norfolk in Inghilterra o quello di Bouquetot in Francia, che hanno superato i cinque secoli di vita e i cui tronchi misurano più di due metri di diametro.
I Greci antichi attribuivano al biancospino il significato di simbolo della speranza e i suoi rami fioriti non mancavano mai nella feste nuziali. Come simbolo della speranza lo ritroviamo in una leggenda medievale che narra come San Giuseppe d’Arimatea, recatosi in Britannia per portarvi la fede, piantò il suo bastone di biancospino e, nonostante fosse pieno inverno, ne sbocciarono tanti corimbi di fiori bianchi e profumati di buon auspicio. In Inghilterra, invece, il biancospino che cresce vicino casa ha un valore propiziatorio, mentre l’abbattimento significa una sfida alla sorte ed è di cattivo auspicio.
Le parti utilizzate sono i fiori in bocciolo e le drupe, che vanno essiccate nel forno (fine settembre).
I fiori vanno raccolti all’inizio della fioritura perché sbocceranno completamente durante l’essiccamento, che va effettuato all’ombra, in luogo asciutto e ben riparato. Ai fiori, conservati in vasi di vetro dopo l’essiccamento, si deve riconoscere un sicuro valore terapeutico: possono esercitare una notevole azione antispasmodica; regolano le pulsazioni cardiache e la circolazione, funzionando come ipotensivi; sono cardiotonici e sedativi del sistema nervoso. Per le sue proprietà cardiocinetiche e sedative questa pianta medicinale è citata in tutte le farmacopee del mondo ed è nota come la “valeriana del cuore”. L’infuso è consigliato pertanto agli arteriosclerotici, ai sofferenti di insonnia, agli emotivi, agli ipertesi. Per preparare l’infuso basta versare un cucchiaio di fiori essiccati in ½ litro di acqua bollente. Bisogna poi lasciare riposare per 15 minuti e berne tre bicchieri al dì, lontano dai pasti. In cosmesi i fiori vengono utilizzati in preparati per pelli grasse e in bagni rilassanti.
I frutti sono astringenti, diuretici, depurativi, vitaminizzanti (vitamine del gruppo B e C), se mangiati appena maturi o in decotto. Con i frutti più belli e più grossi, raccolti dopo i primi freddi, si può preparare una conserva che sarà certo gradita ai bambini come variante alle solite merende. Si lasciano i frutti in acqua pulita per una notte, si scolano, si mettono a cuocere con poca acqua e si fanno bollire per pochi minuti. A parte si prepara uno sciroppo con 500 g di zucchero e 400 g di acqua. Si scolano le drupe e si uniscono allo sciroppo (1 Kg di frutti per la dose indicata). Si versa in vasi a chiusura ermetica e si sterilizza per 20 minuti a bagnomaria. I frutti si possono mangiare anche al naturale ma non in quantità eccessiva, onde evitare intossicazioni. In passato dai suoi frutti si estraeva un liquore zuccherino dal sapore simile al sidro di pere e con particolari proprietà inebrianti.
Il biancospino è una pianta graziosa, nota a tutti e molto diffusa lungo le strade di campagna, ai cui bordi spesso forma delle siepi spontanee. È un arbusto spinoso che può raggiungere i 5–6 metri di altezza con rami tortuosi che portano spine lunghe e molto pungenti. Curioso il nome col quale questa pianta viene indicata nel nostro dialetto: ’u spinepóce, forse proprio per le caratteristiche punture che provocano queste spine a contatto con la nostra pelle, simili al pizzico di una pulce. Ha foglie alterne munite di un breve picciolo e dotate di un bel colore verde intenso. I fiori bianchi, gradevolmente profumati, sono riuniti in infiorescenze a corimbo che sbocciano verso metà primavera tanto da essere scambiati con quelli del prugnolo (’u trigne), che invece fiorisce molto prima. I frutti sono delle drupe carnose di un bel colore rosso vivo, che in autunno rallegrano le siepi e rappresentano una fonte di alimenti per gli uccelli come tordi, merli e in particolare le cesene quando sono di passo. L’abbondante e profumata fioritura in primavera e i frutti rossi nel grigiore dell’inverno ne fanno una pianta decorativa e ornamentale. Di lento accrescimento, viene coltivata anche come soggetto per innesti.
Il legno del biancospino è molto duro, e, lavorato al tornio, rimane lucidissimo. Proprio per la durezza del legno, la tenacia e la longevità di queste piante, il grande scienziato greco Teofrasto diede al loro genere di appartenenza il nome Crataégus, basato sulla parola greca kratos=forza. Quanto alla specie, quella presente nel nostro territorio è la monògyna, così chiamata perché il suo fiore ha un solo pistillo, e quindi produce un solo seme per frutto. Altro nome col quale viene indicata questa pianta nel nostro dialetto è ’a c’rešèlle, termine che ricorre spesso nel tressette, gioco a coppie con carte napoletane, comunissimo nelle cantine presenti un tempo nel nostro paese e oggi nei bar che consentono il gioco delle carte. In particolare quando un giocatore non ha le carte giuste per rispondere alle chiamate del compagno si sente dire: “Eddo’ staje: ’n gòppe ’a c’rešèlle?”.
Il ritrovamento di noccioli nelle vestigia di alcuni insediamenti lacustri dimostrano che già nella preistoria gli uomini si cibavano delle drupe del biancospino. Anche la letteratura riporta alcuni esemplari celebri di biancospino che testimoniano la longevità della pianta, come quello della Contea di Norfolk in Inghilterra o quello di Bouquetot in Francia, che hanno superato i cinque secoli di vita e i cui tronchi misurano più di due metri di diametro.
I Greci antichi attribuivano al biancospino il significato di simbolo della speranza e i suoi rami fioriti non mancavano mai nella feste nuziali. Come simbolo della speranza lo ritroviamo in una leggenda medievale che narra come San Giuseppe d’Arimatea, recatosi in Britannia per portarvi la fede, piantò il suo bastone di biancospino e, nonostante fosse pieno inverno, ne sbocciarono tanti corimbi di fiori bianchi e profumati di buon auspicio. In Inghilterra, invece, il biancospino che cresce vicino casa ha un valore propiziatorio, mentre l’abbattimento significa una sfida alla sorte ed è di cattivo auspicio.
Le parti utilizzate sono i fiori in bocciolo e le drupe, che vanno essiccate nel forno (fine settembre).
I fiori vanno raccolti all’inizio della fioritura perché sbocceranno completamente durante l’essiccamento, che va effettuato all’ombra, in luogo asciutto e ben riparato. Ai fiori, conservati in vasi di vetro dopo l’essiccamento, si deve riconoscere un sicuro valore terapeutico: possono esercitare una notevole azione antispasmodica; regolano le pulsazioni cardiache e la circolazione, funzionando come ipotensivi; sono cardiotonici e sedativi del sistema nervoso. Per le sue proprietà cardiocinetiche e sedative questa pianta medicinale è citata in tutte le farmacopee del mondo ed è nota come la “valeriana del cuore”. L’infuso è consigliato pertanto agli arteriosclerotici, ai sofferenti di insonnia, agli emotivi, agli ipertesi. Per preparare l’infuso basta versare un cucchiaio di fiori essiccati in ½ litro di acqua bollente. Bisogna poi lasciare riposare per 15 minuti e berne tre bicchieri al dì, lontano dai pasti. In cosmesi i fiori vengono utilizzati in preparati per pelli grasse e in bagni rilassanti.
I frutti sono astringenti, diuretici, depurativi, vitaminizzanti (vitamine del gruppo B e C), se mangiati appena maturi o in decotto. Con i frutti più belli e più grossi, raccolti dopo i primi freddi, si può preparare una conserva che sarà certo gradita ai bambini come variante alle solite merende. Si lasciano i frutti in acqua pulita per una notte, si scolano, si mettono a cuocere con poca acqua e si fanno bollire per pochi minuti. A parte si prepara uno sciroppo con 500 g di zucchero e 400 g di acqua. Si scolano le drupe e si uniscono allo sciroppo (1 Kg di frutti per la dose indicata). Si versa in vasi a chiusura ermetica e si sterilizza per 20 minuti a bagnomaria. I frutti si possono mangiare anche al naturale ma non in quantità eccessiva, onde evitare intossicazioni. In passato dai suoi frutti si estraeva un liquore zuccherino dal sapore simile al sidro di pere e con particolari proprietà inebrianti.
Il biancospino è una pianta graziosa, nota a tutti e molto diffusa lungo le strade di campagna, ai cui bordi spesso forma delle siepi spontanee. È un arbusto spinoso che può raggiungere i 5–6 metri di altezza con rami tortuosi che portano spine lunghe e molto pungenti. Curioso il nome col quale questa pianta viene indicata nel nostro dialetto: ’u spinepóce, forse proprio per le caratteristiche punture che provocano queste spine a contatto con la nostra pelle, simili al pizzico di una pulce. Ha foglie alterne munite di un breve picciolo e dotate di un bel colore verde intenso. I fiori bianchi, gradevolmente profumati, sono riuniti in infiorescenze a corimbo che sbocciano verso metà primavera tanto da essere scambiati con quelli del prugnolo (’u trigne), che invece fiorisce molto prima. I frutti sono delle drupe carnose di un bel colore rosso vivo, che in autunno rallegrano le siepi e rappresentano una fonte di alimenti per gli uccelli come tordi, merli e in particolare le cesene quando sono di passo. L’abbondante e profumata fioritura in primavera e i frutti rossi nel grigiore dell’inverno ne fanno una pianta decorativa e ornamentale. Di lento accrescimento, viene coltivata anche come soggetto per innesti.
Il legno del biancospino è molto duro, e, lavorato al tornio, rimane lucidissimo. Proprio per la durezza del legno, la tenacia e la longevità di queste piante, il grande scienziato greco Teofrasto diede al loro genere di appartenenza il nome Crataégus, basato sulla parola greca kratos=forza. Quanto alla specie, quella presente nel nostro territorio è la monògyna, così chiamata perché il suo fiore ha un solo pistillo, e quindi produce un solo seme per frutto. Altro nome col quale viene indicata questa pianta nel nostro dialetto è ’a c’rešèlle, termine che ricorre spesso nel tressette, gioco a coppie con carte napoletane, comunissimo nelle cantine presenti un tempo nel nostro paese e oggi nei bar che consentono il gioco delle carte. In particolare quando un giocatore non ha le carte giuste per rispondere alle chiamate del compagno si sente dire: “Eddo’ staje: ’n gòppe ’a c’rešèlle?”.
Il ritrovamento di noccioli nelle vestigia di alcuni insediamenti lacustri dimostrano che già nella preistoria gli uomini si cibavano delle drupe del biancospino. Anche la letteratura riporta alcuni esemplari celebri di biancospino che testimoniano la longevità della pianta, come quello della Contea di Norfolk in Inghilterra o quello di Bouquetot in Francia, che hanno superato i cinque secoli di vita e i cui tronchi misurano più di due metri di diametro.
I Greci antichi attribuivano al biancospino il significato di simbolo della speranza e i suoi rami fioriti non mancavano mai nella feste nuziali. Come simbolo della speranza lo ritroviamo in una leggenda medievale che narra come San Giuseppe d’Arimatea, recatosi in Britannia per portarvi la fede, piantò il suo bastone di biancospino e, nonostante fosse pieno inverno, ne sbocciarono tanti corimbi di fiori bianchi e profumati di buon auspicio. In Inghilterra, invece, il biancospino che cresce vicino casa ha un valore propiziatorio, mentre l’abbattimento significa una sfida alla sorte ed è di cattivo auspicio.
Le parti utilizzate sono i fiori in bocciolo e le drupe, che vanno essiccate nel forno (fine settembre).
I fiori vanno raccolti all’inizio della fioritura perché sbocceranno completamente durante l’essiccamento, che va effettuato all’ombra, in luogo asciutto e ben riparato. Ai fiori, conservati in vasi di vetro dopo l’essiccamento, si deve riconoscere un sicuro valore terapeutico: possono esercitare una notevole azione antispasmodica; regolano le pulsazioni cardiache e la circolazione, funzionando come ipotensivi; sono cardiotonici e sedativi del sistema nervoso. Per le sue proprietà cardiocinetiche e sedative questa pianta medicinale è citata in tutte le farmacopee del mondo ed è nota come la “valeriana del cuore”. L’infuso è consigliato pertanto agli arteriosclerotici, ai sofferenti di insonnia, agli emotivi, agli ipertesi. Per preparare l’infuso basta versare un cucchiaio di fiori essiccati in ½ litro di acqua bollente. Bisogna poi lasciare riposare per 15 minuti e berne tre bicchieri al dì, lontano dai pasti. In cosmesi i fiori vengono utilizzati in preparati per pelli grasse e in bagni rilassanti.
I frutti sono astringenti, diuretici, depurativi, vitaminizzanti (vitamine del gruppo B e C), se mangiati appena maturi o in decotto. Con i frutti più belli e più grossi, raccolti dopo i primi freddi, si può preparare una conserva che sarà certo gradita ai bambini come variante alle solite merende. Si lasciano i frutti in acqua pulita per una notte, si scolano, si mettono a cuocere con poca acqua e si fanno bollire per pochi minuti. A parte si prepara uno sciroppo con 500 g di zucchero e 400 g di acqua. Si scolano le drupe e si uniscono allo sciroppo (1 Kg di frutti per la dose indicata). Si versa in vasi a chiusura ermetica e si sterilizza per 20 minuti a bagnomaria. I frutti si possono mangiare anche al naturale ma non in quantità eccessiva, onde evitare intossicazioni. In passato dai suoi frutti si estraeva un liquore zuccherino dal sapore simile al sidro di pere e con particolari proprietà inebrianti.
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