
Il diritto dei palestinesi
“A casa di Pablo Neruda, sulla costa/ del Pacifico, mi sovvenne Ghiannis Ritsos./ Atene dava il benvenuto a noi che arrivavamo dal mare,/ in un anfiteatro illuminato dal grido di Ritsos:/ – Oh, Palestina/ nome della terra,/ e nome del cielo,/ vittoriosa sarai… -/ E abbracciandomi mi presentò il segno della vittoria:/ – Questo è mio fratello -./ Così mi sentii vittorioso, frantumato/ come un diamante, e di me non rimaneva che la luce”. (“Come un misterioso accadimento”di Mahmud Darwish in Non scusarti per quel che hai fatto, Crocetti).
Mahmud Darwish – palestinese, nato nel 1941 a al Birwa, piccola città della Palestina, distrutta nel 1947 dai nuclei primitivi delle forze armate ebraico/sioniste – è stato considerato da José Saramago uno dei più grandi ed influenti poeti del Novecento nel panorama letterario e poetico mondiale. Figura di riferimento assoluto della storia e della letteratura palestinesi. Anche grazie a questa poesia Mahmud Darwish ha avuto la capacità di trasformare la causa palestinese da problema regionale, come se appartenesse esclusivamente all’orizzonte palestinese, in una “questione uni- versale”, e lo ha fatto coinvolgendo poeti famosi e ammirati in tutto il mondo, come Neruda e Ritsos. Così la poesia di Darwish ha il merito di aver diffuso nei Paesi del Mediterraneo l’ intera questione palestinese, il diritto di questo popolo alla sua Terra e al suo Stato.
E così avrebbe potuto prendere forma e consistenza il sogno di ogni palestinese: “Un altro giorno verrà, un giorno femmineo,/ alla metafora trasparente, compiuto,/ diamantino, di visita nuziale, soleggiato,/ fluido, allegro. Nessuno sentirà/ alcun bisogno di suicidio o di migrazione./(…) Tutto è femmineo fuori del passato,/ l’acqua scorre dalle mammelle della pietra./ Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta. / E le colombe dormono in un carro armato abbandonato/ quando non trovano un piccolo nido/ nel letto degli amanti”. Purtroppo la storia palestinese ha avuto – ed ha – un altro percorso, quella della sofferenza, dell’oppressione israeliana, che, complici gli USA, l’Inghilterra e la quasi totalità dei Paesi dell’UE – negando il diritto dei Palestinesi al loro Stato, alla loro terra, sta massacrando e espellendo – in quest’ultimo anno – dalla sua Terra il popolo palestinese.
Lo dimostra, inascoltata ed emarginata in primis nel nostro Paese, che la ignora completamente come se non esistesse, Francesca Albanese, nominata, se non erro, da quasi due anni, dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite quale relatrice speciale sui territori palestinesi occupati. Lo dimostra attraverso documentazioni sul campo, nelle sue relazioni alle Nazioni Unite. L’ultimo suo rapporto è di un mese fa, all’incirca. E cosa dice? Si sofferma, documentando ogni crimine che lì da 14 mesi compie l’esercito israeliano a danno della popolazione specialmente nella Striscia di Gaza, dove il bilancio della distruzione è davvero catastrofico, apocalittico con più di 44mila palestinesi/gazawi uccisi, tra cui 17mila bambini, più di 700 neonati e 11mila donne, cui si aggiungono più di 100mila feriti ed un numero imprecisato di persone che ancora sono sotto le macerie della città e dei centri abitati confinanti, letteralmente distrutti.
È stato cancellato tutto quello che attiene alla vita della collettività nazionale e a quella di ogni persona e cioè case, ospedali, chiese, università, infrastrutture, centrali elettriche; e l’acqua potabile poi non viene più erogata. Le persone muoiono così di stenti e malattie, prevalentemente infettive, sbattute tra il sud e il nord della Striscia, obbligate a lasciare tutto quello che resta dei loro averi, sradicati con violenza disumana dall’esercito israeliano. Nella Striscia di Gaza si sta consumando il genocidio del popolo palestinese sotto gli occhi complici e indifferenti di tutti i paesi del nord del mondo, le cui logiche sono quelle prevalentemente affidate alle armi e alla loro brutale efferatezza. Gaza City è stata fatta oggetto di distruzione crudele e inumana molte volte dal 1947/48, gli anni della Nakba. In particolare, è nostro proposito ricordare quanto ha scritto Edward Said in La pace possibile, (Il Saggiatore, Mi, 2023 (2004), pag. 227). Nell’agosto 2002, quindi 22 anni fa, così descriveva la brutalità prevaricatrice delle armi israeliane nel corso della seconda Intifada, settembre 2000: “Gaza è circondata su tre lati da un recinto di filo metallico percorso dalla corrente elettrica; imprigionati come animali, gli abitanti si trovano nell’impossibilità di muoversi, di lavorare, di vendere la verdura e la frutta che coltivano, di andare a scuola. Sono esposti agli attacchi dal cielo degli aerei e degli elicotteri israeliani, e a terra vengono abbattuti come tacchini dai carri armati e dalle mitragliatrici. Affamata e misera, Gaza umanamente è un incubo, fatto (…) di migliaia di soldati impegnati nell’ umiliazione, nella punizione e nell’intollerabile indebolimento di ogni palestinese, a prescindere dall’età, dal sesso e dallo stato di salute. Le forniture mediche vengono trattenute al confine, sulle ambulanze si spara oppure si fa in modo che perdano tempo. Vengono demolite centinaia di case e terreni agricoli e centinaia di migliaia di alberi vengono distrutti in nome della punizione collettiva sistematica con cui si intendono colpire i civili, in gran parte profughi in seguito alla distruzione della loro società nel 1948”. Pur se lontano dalla Palestina, Said, professore tra l’altro per più di dieci alla Columbia University di New York, è costantemente al fianco delle sofferenze palestinesi.
Un altro grande intellettuale, psichiatra peraltro, Franz Fanon, ha messo la sua cultura al servizio della lotta anticolonialistica praticata dall’Occidente e da molti paesi europei a danno dei paesi africani e dell’Algeria in particolar modo. Nel suo volume I dannati della terra (Einaudi, 2007 (1991), p.180), così scrive: “Sì, il primo dovere del poeta colonizzato è di determinare chiaramente il soggetto popolo della sua creazione. Non si può avanzare risolutamente se non si prende per intanto coscienza della propria alienazione. (…) Non basta dunque cercare di svincolarsi accumulando le proclamazioni o i dinieghi. Non basta raggiungere il popolo in questo passato che non è più, ma in quel movimento ribaltato che esso ha appena abbozzato e a partir dal quale, improvvisamente, tutto sarà messo in discussione. È in quel luogo di squilibrio occulto in cui sta il popolo che dobbiamo portarci, poiché, non dubitiamone, è lì che si accende la sua anima e si illumina la sua percezione e il suo respiro”.
È quanto con impegno ammirevole e costantemente assiduo sta facendo l’ intellighenzia palestinese della Resistenza fin dagli Anni Quaranta del Novecento.☺