Il diritto palestinese allo stato
Innumerevoli, giornalmente proposte dalle TV, pubbliche e private, come pure dai social, le immagini, che vengono dalla martoriata Palestina, della distruzione di ogni cosa, soprattutto della vita di innocenti, e delle inqualificabili prevaricazioni nei confronti del diritto internazionale umanitario, come di tutte le norme che l’ONU si è data per limitare al massimo il conflitto delle armi tra i popoli che hanno accettato la Carta delle Nazioni Unite. Questa si riferisce al rispetto estremo che i popoli della Terra debbono nutrire per essa, come pure deve indurre i paesi aderenti a mettere in pratica quelle decisioni e quei comportamenti che garantiscano la pace tra i popoli, il rifiuto della violenza come pure il ripudio dei conflitti armati, che, invece, solitamente i Paesi più forti militarmente e più spregiudicati economicamente alimentano senza vergogna.
La raffigurazione di tale violenza nei confronti di quanti, oggi, sono considerati gli ultimi di qualsiasi scala sociale, l’ho anche percepita dinanzi alla TV nel corso di una gara dei 400 metri femminili alle scorse Olimpiadi francesi, competizione nella quale partecipava anche un’atleta palestinese. Rispetto alla vigorosità fisica e alla esperienza agonica delle altre partecipanti alla batteria di eliminazione, l’atleta palestinese mi è sembrata intimidita, priva di quelle energie che sprizzano voglia di affermazione e questo, ne sono più che convinto, sicuramente per la semplice ragione che lei – come tutto lo sport palestinese in questi settant’anni e poco più di grandi sofferenze ed emarginazione internazionale provocate dalla brutale e aggressiva prevaricazione di Israele, diciamolo a chiare lettere: l’apartheid, con al fianco gli USA e anche la UE – non ha avuto modo di allenarsi come le altre atlete.
Quando c’è un conflitto armato o ideologico che sia; quando c’è la presunzione della esclusività, della sovranità gelosa, egoista, eslege e prepotente su un territorio, come ideologicamente il ceto politico attuale israeliano esprime, la parte di popolo oppressa non può più vivere secondo quanto naturalmente avviene nei paesi liberi. E, dunque, anche il mondo dello sport palestinese in questi ultimi decenni non ha potuto esprimere tutte le potenzialità che ogni atleta ha in fieri. La sensazione di fastidio e di sofferenza è stata rilevante, quando, poi, così mi è apparso, non si è proprio più parlato sia del risultato dell’atleta palestinese e sia delle condizioni socio/ambientali estremamente negative nelle quali un/a atleta palestinese allo stato attuale può praticare discipline sportive. Lì, nella Striscia di Gaza, che è parte integrante della Palestina, paese che l’ONU riconosce ai Palestinesi dal 1947/48, non solo non si pratica più neppure uno straccio di sport; ma lì, ed è la condizione più grave, non si vive più, proprio perché i simboli naturali grazie ai quali un popolo, una/un cittadina/o possono praticare lo sport, vale a dire le scuole, la sanità con gli ospedali, l’ integrità del territorio con i suoi cittadini, con gli aromi delle sue essenze boschive, con gli effluvi dei sapori e dei vapori marini; lì, sì, proprio lì, non esistono più, a causa dell’attuale catastrofe genocidaria che si sta abbattendo sul popolo palestinese.
Alla luce di queste considerazioni dolorose possiamo rimproverarci ben poco, ma non l’attenzione, l’interesse, la passione posti sia alle discipline storiche che a quelle letterarie/sociali nel corso degli anni. E proprio grazie a queste letture possiamo dire che gran parte di noi fin dalla metà degli anni Sessanta ha potuto già capire chi volesse dominare il mondo con la violenza e le armi, goffamente ammantate dalla vigorosa produzione industriale che apriva a nuove concezioni commerciali, a nuovi messaggi socio-culturali grazie ai quali l’Occidente americano ha potuto acquisire e mantenere, sebbene vacillante ed in crisi profonda di identità al proprio interno, ancora oggi la sua primazia liberal-capitalistica.
L’insegnante di greco e latino, in primo liceo classico, nella rappresentazione di uno dei pionieri della storia della letteratura greca, Esiodo – VII secolo a.C., quindi, dopo Omero -, ci lesse (e successivamente ne abbiamo discusso anche in maniera animata in classe) da Opere e giorni quella che è considerata dagli storici la prima favola della letteratura greca e cioè “l’apologo dello sparviero e dell’usignolo”, in cui si capisce molto chiaramente che l’uccellino debole, pur fascinoso col suo canto, è destinato a soccombere alla rapacità aggressiva dello sparviero, enormemente più forte. Lo sparviero tiene tra i suoi artigli l’usignoletta, trasportandola tra le nuvole e non commuovendosi ai lamenti emessi dall’uccellino: “Sventurata, perché gridi? Ti tiene chi è molto più forte di te. Tu verrai dove io ti condurrò, per quanto tu sappia cantare; io farò il mio pasto di te, se voglio, o ti lascerò libera. Folle è chi vuol resistere a chi è più forte: non ottiene la vittoria, e, oltre alla vergogna, soffre dolori”.
È molto chiaro, nonché attualissimo, il significato della favoletta esiodea, che, poi, qualche secolo dopo, nel corso del V secolo a.C., sarà razionalmente codificato ne La guerra del Peloponneso dello storico Tucidide nel discorso, universalmente noto, che gli Ateniesi fanno ai Meli (abitanti dell’isola Melo, che combattevano contro l’egemonia ateniese a difesa della propria indipendenza, poi devastata e annientata) ed in cui esponevano la loro teoria di supremazia assoluta nel dominio dei mari, nella costrizione delle libertà cittadine e, quindi, nell’assoluto assoggettamento politico, militare, economico di una delle isole più ricche e meglio organizzate dell’arcipelago greco.
Mi fa piacere, inoltre, accennare anche al romanzo, Il regno dei gufi, di uno dei più grandi scrittori del Novecento di letteratura fantastica, cioè Martin Hocke – e quindi facendo un salto di quasi 2.500 anni rispetto ad Esiodo – nel quale Hocke fa dire a mamma gufa – rappresentazione metaforica del mondo degli uomini – ai piccoli gufi: “Non accumulare e non bramare,/ Ma sii coraggioso e libero./ Persegui sempre il sapere/ e lentamente impara a conoscere/ ciò che la scienza non può vedere./ Sforzati e lotta per apprendere/ sii temperato e saggio/ perché solo abilità e sapienza/ ci aiuteranno a sopravvivere”. Di qui, comprendiamo, pur rendendoci conto che il mondo dei gufi è solo immaginario, fantastico, che compito dei genitori, in prima istanza, e poi della società di cui facciamo parte, sono il curare, l’occuparci, il dare importanza alle nuove generazioni attraverso insegnamenti indispensabili per crescere bene e per assaporare un’esistenza consapevole e civilmente dedicata agli altri; e tali insegnamenti riguardano non solo la realizzazione di noi stessi, ma anche la necessaria consapevolezza di custodire e alimentare conoscenze e cultura, mettendole al servizio del progresso di tutta la società.
Si tratta, di conseguenza, di accelerare e alimentare la formazione culturale che apprendiamo dalle generazioni precedenti e che merita di essere non solo custodita ma anche ulteriormente alimentata. Mamma gufa dice al suo piccolo che l’istruzione non solo non fa male, ma che da essa dipende la nostra sopravvivenza. Allora tra i nostri impegni culturali, sociali, politici mettiamoci anche la conoscenza e l’approfondimento della “gufologia”; ora soprattutto che alle porte ci sono il sentore e il pericolo di una guerra atomica, che chiuderà il ciclo della Storia di tutti i viventi, umani, animali e vegetali. ☺