il dolore di un popolo  di Michele Tartaglia
30 Ottobre 2013 Share

il dolore di un popolo di Michele Tartaglia

 

“Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo ricordandoci di Sion” (Sal 137,1). Così comincia il più famoso canto degli ebrei deportati, a cui si ispira il Va’ pensiero di Verdi e una bella poesia di Quasimodo. La bibbia, Parola di Dio, ci conserva le parole strazianti di un’umanità ferita e calpestata, sempre attuali nella nostra storia. Ad undici anni dal terremoto che ha portato alla nascita del nostro periodico di resistenza umana, non possiamo ripiegarci a riflettere solo sulla nostra tragedia, spesso diventata farsa, a causa di egoismi famelici e cinici, perché tante tragedie si sono consumate da allora sotto il sole, guardando anche solo la nostra Italia: terremoti, alluvioni, fino agli ultimi (ma purtroppo non ultimi) morti affogati nel nostro mare (così i romani chiamavano il Mediterraneo, perché quel mare è cosa nostra, di un continente che si gloria di discendere da Roma). E tuttavia questo canto dice anche tutto il dolore di un popolo terremotato che rimane ancora in esilio, diventando un numero nell’elenco delle cose lasciate in sospeso, per gli anziani che restano nelle baracche, per i soldi stornati altrove ad ingrassare il ventre di voraci approfittatori, che si ricordano del terremoto solo per le celebrazioni, al pari di un’Italia che mentre ancora tollera la Bossi-Fini, proclama una giornata di lutto nazionale, consumando parole vuote e lacrime di coccodrillo. “Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, allegre canzoni i nostri oppressori: Cantateci i canti di Sion!” (137, 2).

È questa la tentazione che viene di fronte alle prese in giro di chi continua a venderci la lamentela della mancanza di fondi, ma nel frattempo, anziché riformare sul serio la struttura regionale, aumenta gli emolumenti dei consiglieri e affini (persino l’Espresso ne ha parlato!) facendoli passare per tagli alla spesa. I nostri babilonesi non ci chiedono canzoni allegre, ma ce le cantano direttamente loro! “Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia” (137,4-6). La terra straniera sono le case prefabbricate e fatiscenti del nostro popolo e di tutti coloro che in altri terremoti stanno nelle new town, ma anche, non possiamo dimenticarlo, la condizione di profughi di tanti nostri fratelli che scappano dalla morte e dalla fame e incontrano anziché una casa, dei muri, sia legislativi che morali, se di fronte alle tante bare (che ricordano quelle di S. Giuliano e dell’Aquila) ancora continuano a difendere anche solo l’idea che ci possa essere una legge che dichiari ipso facto una persona illegale, come se dovesse togliere il disturbo per essere venuta al mondo: come si può dichiarare illegale l’esistenza di un uomo? Il nazismo non ha insegnato nulla? E il peggio è che del canto degli schiavi ebrei (il Va’ pensiero) se ne è appropriato un gruppo politico che fa strame dell’idea che l’uomo ha una dignità in sé, cantando per il loro diletto i canti di Sion, come se gli esiliati e i calpestati fossero gli abitanti della Padania!

“Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che, nel giorno di Gerusalemme, dicevano: Spogliatela, spogliatela fino alle sue fondamenta!” (137,7).Quanti di fronte alle tragedie viste sono stati in silenzio oppure hanno detto che se lo sono meritato? “Che ci vengono a fare sulle nostre coste, dove non c’è neppure lavoro per noi? Tornino a casa loro che qui vengono solo a rubare!”. Gli Edomiti erano contenti della fine di Gerusalemme, noi semplicemente cambiamo canale per vedere l’ennesima trasmissione di cucina! “Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra” (137,8-9). Noi siamo Babilonia che abbiamo affamato il mondo e adesso ci chiediamo perché dal sud del mondo vengono qui. Noi siamo Babilonia che ha taciuto quando si commettevano illeciti per incassare la differenza per poi permettere i crolli mortali dei terremoti. Noi siamo Babilonia che ha permesso alla classe politica di usare le tragedie per fini elettorali, anziché calarsi sul serio nei panni di chi sente sulla propria pelle l’angoscia per la perdita della casa. Il Salmo ci insegna che certe cose si capiscono solo se le viviamo in prima persona. Solo quando siamo personalmente (ciascuno di noi) colpiti forse possiamo solidarizzare con le miserie dei nostri simili. L’invocazione degli schiavi ebrei a Babilonia non dobbiamo leggerla come desiderio di vendetta, ma come constatazione che l’uomo recupera il senso del limite solo quando fa l’esperienza della propria sofferenza.

Che i drammi dell’umanità, soprattutto per chi ha vissuto, come noi, il dolore del terremoto, non diventino più solo l’oggetto di uno stanco rituale di ricordo, ma spinta all’impegno di farci carico delle vittime, di lottare per la giustizia. ☺

mike.tartaglia@virgilio.it

 

 

 

 

 

 

 

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