Il mito della frontiera
7 Febbraio 2022
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Il mito della frontiera

Se non si fosse ancora capito, avrei una certa familiarità con i libri, specialmente quelli di carta, che ho imparato a maneggiare fin da bambino. La libreria Edizioni Paoline era di fianco al portone di casa e non poche volte l’ho frequentata per acquistare i cosiddetti libri per ragazzi, e spesso sia mio fratello che io seguivamo i preziosi consigli delle simpatiche suore che gestivano il negozio.

Le nostre letture da adolescenti non erano altro che i classici della letteratura mondiale riadattati per un pubblico giovane: una parte consistente di essi erano romanzi appartenenti alla letteratura anglo-americana. Quello che più ci aveva conquistato era L’ultimo dei Moicani – che nell’edizione per ragazzi veniva presentato in versione ridotta ed edulcorata! – e ricordo che lo abbiamo riletto diverse volte.

Proprio queste letture, che da ragazzo amavo tanto, sono l’espressione di un aspetto ampiamente presente nella cultura, oltre che nella letteratura, statunitense: in inglese è il frontier myth, il mito della frontiera in italiano, che si è tradotto in opere narrative e successivamente ha dominato il campo cinematografico con la creazione del fortunato genere western. Sul piano storico questo mito compare successivamente all’ espansione della nazione americana sul territorio: dalle tredici colonie che si affacciavano sulle coste dell’Atlantico, intraprendenti pionieri ma anche intere famiglie, per necessità o per diletto, hanno cominciato a penetrare all’ interno, in direzione ovest – che in inglese si dice west – e ad insediarsi sempre più frequentemente nelle praterie circostanti, a danno delle popolazioni native che erano invece dedite alla caccia – prevalentemente dei bisonti – e conservavano uno stile di vita nomade.

Nella storia americana la frontiera “avanzava” verso ponente, non essendo relegata ad un determinato spazio, e si allargava ai territori ancora non raggiunti o conquistati, fino alle coste dell’Oceano Pacifico che delimitano a ovest il continente americano. La frontiera, quindi, è stata varcata più volte e ha consentito ad un gran numero di persone di raggiungere nuovi luoghi e stabilirvisi, dimostrando innanzi tutto che non si trattava di un confine fisso ed irremovibile; come suggerisce sapientemente Antonio Spadaro nel capitolo “Frontiera” del suo recente Fiamma nella notte, “la natura, cioè la vastità degli spazi della prateria selvaggia, diventa luogo di scoperta dell’identità. Così la letteratura dell’Ottocento americano produce romanzi di iniziazione nei quali l’eroe non cerca l’ integrazione nella società, ma una rinascita individuale nella natura”.

La narrazione che ha preso le mosse da questo fenomeno si è trasformata, com’è noto, nell’epica dell’eroe americano che appare “una figura in perenne movimento […] La letteratura statunitense dunque vive, sin dalle sue origini, di una sensibilità di confine”. Coscienza del limite e volontà di superamento: la civiltà americana nasce con questi presupposti di libertà e rispetto che però restano enunciazioni di principio, non validi per tutti, che la storia seguente ha ampiamente disatteso.

Purtroppo proprio il mito della frontiera ha causato “lacrime e sangue” perché la conquista dei territori occidentali non ha seguìto regole, non si è attenuta ad alcuna legge ed ha comportato lo scontro violento con i nativi, una guerra non sempre ufficialmente riconosciuta, e lo sterminio di questi ultimi, ridotti oggi a vivere in poche migliaia nelle riserve, ormai soltanto attrazioni turistiche.

Parlare di frontiera non mi sembra fuori luogo: essa è diventata oggi un limite non più spaventoso perché apre all’ignoto o emoziona quanti hanno spirito di avventura; la frontiera è visibilmente rappresentata da muri, filo spinato, imbarcazioni che pattugliano i mari. Una spinta ad inseguire i propri sogni, a riscattarsi da una condizione di sofferenza, a conquistare il proprio posto nel mondo è ciò che anima i tanti migranti che drammaticamente annegano nel mar Mediterraneo, i profughi bloccati al gelo sul confine orientale europeo, gli uomini, le donne, i minori imprigionati nei lager libici oppure dispersi nei deserti messicani: anch’ essi – come i pionieri americani – tentano di oltrepassare la frontiera, di andare oltre quelle barriere che interrompono il cammino. Ma con quale prospettiva? Quale destino?

Amaramente constatiamo che proprio l’entusiasmante mito della frontiera, da cui tutto l’Occidente risulta condizionato, ha perso la sua forza propulsiva. Uscire dai confini delle colonie atlantiche, inoltrarsi in una natura sconosciuta ed inquietante, mettere alla prova l’abilità di autodeterminarsi, dimostrare il proprio spirito di iniziativa per raggiungere l’obiettivo di una vita migliore, liberarsi di qualsiasi condizionamento: tutto ciò si è trasformato nel più brutale degli atteggiamenti: chiusura, rifiuto, violenza. E continuiamo imperterriti, noi occidentali, a preferire l’isolamento, il blocco, la protezione del nostro – ahimè – ridicolo “piccolo mondo antico”.☺

 

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