il rischio diffuso
3 Luglio 2011 Share

il rischio diffuso

 

Nella società in cui viviamo sembra affermarsi una nuova teorizzazione del concetto di rischio e di società del rischio. Insieme a quello insito nello sviluppo delle tecnologie, percepito in occasioni di grandi catastrofi ambientali, sono emerse la chiamata in causa della responsabilità dei soggetti attori, e, nel sentire comune, l’invocazione di una nuova governance volta a generare azioni preventive più che solo risarcitorie del danno provocato.

Una interpretazione filosofica morale del rischio, che superi l’antico concetto di pericolo, ci suggerisce che esso è già il semplice esistere; rischio è scegliere i valori per cui vivere; rischio è trasformare l’azione dell’uomo in un atto della persona. In altre parole – ci narra la riflessione antropologica – il rischio è la condizione abituale e “cercata” dell’uomo. Nelle società antico-sacrali il rischio da evitare, attraverso i riti divinatori, era quello di non suscitare l’ira degli dei o di altre potenze divine; successivamente si iniziò ad intravedere il governo del mondo reale nel modello del gioco (Huizinga), così come governa il mondo dei dadi (“alea” appunto). La coppia “agon”  (competizione) e “alea” (sorte) pare abbia strutturato la stessa civiltà accidentale: l’uomo occidentale, ponendo il rischio al centro del suo agire, ha prodotto un processo di civilizzazione nel quale “il modello del gioco è all’origine del diritto, sia nella definizione della regola equa (giustizia), sia nel modo di giocare (il processo)”. Il modello prevalente di “misura oggettiva” del  rischio è rappresentato dal “calcolo delle probabilità”. Diventa, tale razionalità matematica, una forma di sapere, sviluppatasi ulteriormente nel calcolo della comparazione dei rischi, a partire dall’affermazione  della inesistenza del “rischio zero”: l’agire è rischio, ma anche il non-agire non rappresenta l’evitare il rischio bensì introdurne uno nuovo, a sua volta, da quantificare. Il rischio, dunque, nato dalla teoria del gioco e oggettivato nel calcolo delle probabilità è divenuto la teoria della modernità capace di indicare i valori dell’agire, unitamente ad un’etica della responsabilità che impone a ciascuno di enunciare i criteri di moralità delle proprie scelte nei confronti degli altri (codici etici).

L’economia ne ha tratto tutti i vantaggi: essa introduce, nell’universo del rischio, una teoria generale del valore a partire dalla teoria della decisione. Poiché il valore si esprime attraverso le scelte degli attori, questi sono dominati dal rapporto che hanno con il rischio, dalla loro più o meno avversione nei suoi confronti.  Si giunge, però, all’inversione di tendenza circa il binomio classico produzione di ricchezza – produzione di rischio. Mentre nelle società industriali la logica di produzione della ricchezza domina sulla logica di produzione dei rischi (come è avvenuto tranquillamente fino agli anni 70 del secolo scorso), nella società del rischio questo rapporto si inverte: l’accrescimento del progresso tecnico-economico è sempre più messo in ombra dalla percezione della produzione dei rischi. Racchiusi nella categoria degli effetti collaterali latenti, a causa della loro universalizzazione e della critica puntuale e coraggiosa dell’opinione pubblica, i rischi emergono dalla latenza e acquistano significato nuovo e centrale nei conflitti sociali e politici. Ciò non scalfisce la consapevolezza che il rischio è qualcosa a cui non possiamo sottrarci, perché rappresenta il tratto essenziale di una società complessa: “Complessità vuol dire necessità di selezione, necessità di selezione significa contingenza, contingenza significa rischio”. In altre parole possiamo scegliere se correre questo o quel rischio o addirittura il rischio di non scegliere ma non possiamo sottrarci al rischio in quanto tale.

Questa antropologia del rischio, cresciuta in sociologia del rischio, chiama in causa i rapporti intercorrenti tra i cosiddetti attori della definizione sociale del rischio: gli scienziati (ricercatori, tecnici, esperti); i giuristi (rapporti fra diritto e scienza); i filosofi (come nella bioetica); i politici (mediatori della “sviluppo sostenibile”) i cittadini (opinione pubblica).

In ordine alla classificazione dei rischi e agli strumenti per la loro quantificazione ci si era attenuti alla distinzione di rischi certi – inaccettabili, in quanto è chiaro il nesso di causalità fra l’avvenimento e il danno provato – rischi residuali o concorrenti, inerenti le normali e quotidiane attività verso cui è gioco-forza un atteggiamento di tolleranza, rischi incerti o presunti, scientificamente non ancora provati (nel nesso certo di causa ed effetto), ma che si suppone esistano. L’attenzione maggiore si è soffermata  di recente proprio su questi ultimi.

Lo statuto dell’ignoranza (assenza di conoscenza) configurato come semplice dato negativo, di fronte alla necessità di prevedere l’impatto di tecnologie nuove e potenzialmente pericolose ha spinto a cercare un nuova comprensione circa “l’ignoto”. Si registra una dimensione di incertezza del sapere nelle nuove scienze della vita, in particolare nel rapporto scienze ambientali – biotecnologie, causa la rapidità con cui vengono applicate nuove tecnologie sotto l’impeto delle forze economiche che regolano gli sviluppi del processo industriale. Il cosiddetto impatto sociale  della scienza ha generato l’espressione “incertezza della scienza”.

La comunità scientifica, chiamata a pronunciarsi nel campo della scienza applicata o della tecnologia che comporti regolazione normativa, pare non sia in grado di esprimere una posizione certa e univoca, quando è esplicitamente interpellata. Il tradizionale rapporto tra scienza e diritto, all’insegna di un’apparente neutralità tra i due saperi, è di fronte ad una diversa consapevolezza e ad un cambiamento di prospettiva. Si  sta evidenziando il passaggio da una visione positiva e acritica nei confronti del sapere scientifico ad una posizione consapevole della non neutralità delle soluzioni tecnologiche allorché le stesse entrano in contatto con attività di produzione, che possano incidere sulla sicurezza, sulla tutela dell’ambiente, sugli esseri viventi, sull’uo- mo.

Laddove sono emersi ambiti in cui la tecnologia – assimilata tout court alla scienza – ha creato rischi rilevanti e si è rivelata incapace di controllarli con la desiderata certezza, sono aumentate le situazioni in cui il diritto è chiamato ad “integrare” la scienza nella funzione sociale richiesta. Sempre più è apparso necessario all’opinione pubblica che il diritto intervenga con misure di protezione dei cittadini.  ☺

 

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