in ascolto  di Dario Carlone
29 Aprile 2013 Share

in ascolto di Dario Carlone

 

Che cosa lega il mondo ultramoderno della tecnologia contemporanea e quello fiabesco medievale? Semplicemente il ricorso ad un vocabolo “comune”: troll!

Derivato dalle saghe scandinave, riportato in auge dalla narrativa fantastica degli ultimi decenni, troll è il sostantivo che in inglese designa le creature misteriose delle fiabe, spesso gnomi o giganti, che si distinguono per la loro cattiveria, irridendo ed ostacolando l’eroe buono. Nel gergo della rete, invece, il termine, in affinità, sta ad indicare colui che inserisce – letteralmente “posta”, cioè mette in bacheca – in una discussione sul Web o su uno specifico Blog, un messaggio estraneo,  per nulla attinente e quindi fuorviante.

Questo sembra essere avvenuto recentemente nei  dibattiti che la “nuova” politica svolge sulla rete e che pare essere stato inquinato da inserimenti inattendibili, non in sintonia, appunto dei troll.

Ancora più grave è però la constatazione che un luogo di libertà di espressione – Internet – possa diventare una palude in cui l’interesse egoistico oltrepassi il perseguimento del bene collettivo ad opera di veri e propri pirati, i famigerati hacker, terrore ed incubo degli utenti della rete, e conseguentemente  di molti di noi che ci serviamo di questo mezzo di comunicazione con familiarità e costanza.

Il vocabolo inglese – che deriva dal verbo hack, il cui significato attuale più comune è “collegarsi ad un computer” – è ormai  per antonomasia sinonimo di “pirata informatico”,vale a dire  colui che si impossessa in maniera non autorizzata dei dati altrui, si introduce furtivamente in un sito oppure presso una casella di posta. La sua pericolosità è innegabile: la riservatezza dei dati viene violata e l’integrità delle funzioni che ogni utente richiede al proprio computer può essere danneggiata, anche irrimediabilmente.

A guardar bene, il significato originale del verbo hack è quello di “tagliare in maniera grossolana” o piuttosto “rovinare un testo operando dei tagli”: questo aspetto, se vogliamo ancora  più subdolo, di tale pratica non va trascurato: più che distruggere gli hacker immobilizzano, invalidano, modificano “senza permesso”.

Qual è la logica di tale comportamento? A quale bisogno rispondono azioni del genere? Attaccare un sito, introducendosi forzatamente in una banca dati, è un atto che risponde unicamente al cinismo del danneggiare fine a se stesso, dell’immotivata protesta, del meschino interesse personale. A ciò si aggiunge la volontà, a volte anche palese, di mantenere lo stanco esistente, di conservare obsolete strutture, di impedire il cambiamento.

Le piazze virtuali che si stanno diffondendo sempre più e che tentano di ricondurre le persone – o di portare le nuove generazioni – ad impossessarsi del desiderio di condividere, confrontare, ascoltare idee ed opinioni, vanno considerate essenziali mezzi di comunicazione, forse gli unici che una civiltà estremamente tecnologizzata oggi ci consente. Pur con i loro limiti, dovuti soprattutto all’uso non sempre consapevole e corretto che gli utenti possono farne, esse veicolano informazioni, pareri, convinzioni.

Non riconoscerne la validità e l’autenticità credo sia un grave errore; attaccarle con mezzi poco leciti non contribuisce all’esercizio democratico; ignorarle rappresenta semplicemente gratuita ostinazione e rifiuto di porsi in ascolto della voce delle persone; avvicinarsi ad esse con rispetto, interesse ed atteggiamento critico è quello che ci chiedono i tempi che stiamo vivendo.

“La verità sui muri … le menzogne sui giornali”: la mano non tanto anonima che ha lasciato questo messaggio su uno dei muri di una stazione della linea metropolitana della capitale ha esposto una teoria condivisibile: troppo spesso la realtà viene nascosta o manipolata, trasposta e non comunicata correttamente da quelli che dovrebbero  essere i  mezzi di informazione.  Forse i muri che ospitano invece la verità sono proprio quelli “virtuali”, pirati permettendo! ☺

dario.carlone@tiscali.it

 

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