la libertà si conquista
6 Marzo 2010 Share

la libertà si conquista

 

Attenzione a non tirare troppo la corda. Potrebbe essere questo lo slogan con cui leggere un episodio interessante della storia dell’esodo del popolo d’Israele, raccontato nel capitolo 14 del libro dei Numeri. Siamo in un momento critico delle vicende del popolo: dopo una lunga permanenza sul Sinai, si è di nuovo messo in cammino verso la terra promessa ma, giunto quasi al termine del percorso, si spaventa ascoltando la relazione degli esploratori mandati in quella terra. Di fronte all’idea di dover affrontare dei nemici che sembrano più potenti di quanto sono in realtà (perché il popolo ha Dio dalla sua parte), rimpiangono l’Egitto, la schiavitù dalla quale Dio li aveva liberati: “Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?… Su, diamoci un capo e torniamo in Egitto” (Nm 14, 3-4). Ironia della storia: si anticipa il ritorno alla schiavitù cercandosi un capo a cui obbedire, mentre Mosè, il loro condottiero, non ha mai preteso di comandare, ma semplicemente di fare da intermediario tra Dio e il popolo, proclamando i comandamenti.

A questa presa di posizione del popolo, Dio risponde con la decisione dello sterminio, ma l’intercessione di Mosè fa ritornare Dio sui suoi passi, anche se solo in parte: qui infatti avviene la decisione di far vagare il popolo nel deserto per la durata di una generazione, cioè quaranta anni. Il popolo non torna alla schiavitù, perché ciò sarebbe in contraddizione con quanto Dio ha già fatto e un Dio che torna sui suoi passi non è più un Dio affidabile, in base al ragionamento che fa Mosè (Nm 14,13-16). Allo stesso tempo, tuttavia, non conduce più quella generazione nella terra promessa, ma vi conduce una nuova generazione: “Nessun censito tra voi, di quanti siete stati registrati dai venti anni in su e avete mormorato contro di me, potrà entrare nella terra nella quale ho giurato a mano alzata di farvi abitare, ad eccezione di Caleb, figlio di Iefunnè, e di Giosuè, figlio di Nun. Proprio i vostri bambini, dei quali avete detto che sarebbero diventati preda di guerra, quelli ve li farò entrare; essi conosceranno la terra che voi avete rifiutato” (Nm 14,29-31). Gli israeliti resteranno in una sorta di limbo: non sono più schiavi, ma non sono ancora liberi, in quanto non hanno saputo comprendere l’importanza di avere una Legge che dà loro un’identità forte, in quanto rende tutto il popolo una comunità di eguali, cosa che li rende anche capaci di affrontare gli altri popoli che invece mantengono al loro interno tutte le divisioni di classe, mettendo così a rischio l’equilibrio sociale, che potrebbe esplodere quando i reietti di quelle società vedranno in Israele un modello di società alternativa.

Certo la bibbia usa un linguaggio mitico e antropomorfico, ma l’autore sacro vuol far comprendere ai suoi lettori che avere Dio dalla propria parte non significa avere un prestigiatore o un Rambo che lotta per conto del popolo, bensì piuttosto la forza di un progetto giusto che per il fatto stesso di essere realizzato in una società, diventa contagioso per chi viene a contatto con esso. È ciò che sapevano bene Giosuè e Caleb, gli esploratori che hanno visto la condizione di quei popoli e hanno potuto dire con sicurezza: “Non abbiate paura del popolo della terra, perché ne faremo un boccone; la loro difesa li ha abbandonati, mentre il Signore è con noi” (Nm 14,9). Invece il popolo non coglie la forza del progetto, perché ciò implica un coinvolgimento personale, un non poter restare fermi aspettando che tutto magicamente si compia, senza nessuno sforzo, in quanto è necessario mettere in discussione un modo di essere basato sulla dipendenza dagli altri, fossero Mosé o Dio stesso, e costruire la società giusta con le proprie mani, rinunciando agli interessi personali in favore del bene di tutti. Sappiamo come è finita la storia: neppure Mosé entrerà nella terra in quanto dubiterà lui stesso della realizzabilità del progetto e della fedeltà di Dio (Nm 20,12). Sarà Giosué: con una nuova generazione di persone, che pur non avendo conosciuto la schiavitù d’Egitto sanno che non si può restare in un limbo per sempre, ma è necessario realizzare qualcosa per dare un senso compiuto alla propria vita.

Perché raccontare questo mito passato? Rileggendo questo racconto ci si rende conto che in filigrana è scritta anche la nostra storia, la storia d’Italia che, come ogni popolo che ha conosciuto la schiavitù, ha avuto l’opportunità di liberarsi, anche se non sempre tale opportunità viene colta. Come leggere l’Egitto se non in riferimento al cupo ventennio che ha attraversato la nostra Italia e come leggere il Sinai se non come l’atto fondante della nostra Repubblica, con la Carta Costituzionale che incarnò il sogno dei nostri padri i quali, con ispirazione quasi divina, hanno progettato una società in cui tutti potessero realizzare se stessi, non in opposizione ma in collaborazione con tutti gli altri, una società capace di accogliere anche i diversi e gli stranieri, per dare loro nuove opportunità. Ma di questo sogno cosa ne è stato? Ci siamo ritrovati in un limbo in cui si sogna addirittura di avere un capo che possa riportare a una schiavitù desiderata anche se non vissuta, una sorta di paese dei balocchi che in realtà ci trasforma solo in bestie che seguono ed esaltano gli istinti primordiali, approvando chi li ostenta con ammiccante complicità; asini che non si rendono conto di portare il basto che trasporta i proventi del pifferaio magico. Se il popolo d’Israele è rimasto quaranta anni nel deserto, uno per ogni giorno della durata dell’esplorazione della terra (Nm 14,34), quanto durerà il nostro vagare nel non senso, nella spasmodica esaltazione di un capo che ci anestetizza con la sua schiavitù formato velina (nel duplice senso delle forme esposte e della stampa imbavagliata), mentre i poveri Giosuè si stracciano le vesti (Nm 14,6) scongiurando il popolo di svegliarsi da questo sogno diventato incubo? La speranza è nelle nuove generazioni (qualche segnale c’è sempre, per fortuna) che sappiano smascherare il potere oppressivo che si cela dietro sorrisi e battute salaci, per imparare, dalle loro delusioni e dalla mancanza di un futuro certo, che non si può attendere la soluzione dagli altri, ma è necessario rimboccarsi le maniche per sconfiggere i nemici che prendono forza dalla nostra ignoranza. ☺

mike.tartaglia@virgilio.i

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