La materia della parola
Roberta Dapunt è nata nel 1970 a Badia, dove vive (scrive anche in ladino: Nauz, Il ponte del sale 2017). La sua quarta raccolta nella «Collezione di poesia» Einaudi (dopo La terra più del paradiso, 2008; Le beatitudini della malattia, 2013; Sincope, 2018), pubblicata nel febbraio di quest’anno, reca un titolo che può risultare spiazzante: Il verbo di fronte. «Non un verso. Non uno che mi stia di fronte,/ […] e si dica conveniente alla richiesta interiore» (p. 57). «Di fronte»: e dunque la poesia come lo specchio (p. 14) dell’assetto mentale e sentimentale di chi scrive. Il verso, a sua volta, si impernia sul «verbo», la parola. E questa, oltre che per riflettere la nostra «anima», ci sta «di fronte» per fermare le cose, per dirle/darle con puntualità. Talvolta, «in questo luogo di sola natura e isolati sentimenti», dominato da un’intima «tristezza» (p.28), di fronte alla parola/al verbo che dovrebbe fissare il tutto in poesia, l’io lirico si smarrisce, perché «la difficoltà di questo vivere sta nel non capire lo scopo» (p. 3). E questo mette capo a un atto di dolore che è, allo stesso tempo, confessione (laica) di una difficoltà a esprimersi pienamente, e ‘ricevuta’, con amara accettazione, di un dolore costitutivo dell’esistenza. Allora il titolo Il verbo di fronte sembrerebbe quasi potersi spiegare, per questo rispetto, con il montaliano «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro». Ma nel contempo quel titolo indica invece la ricerca assidua, ostinata, di tale parola-verbo, dell’«unità del verbo» (p. 27), che scende nel profondo di un mistero esistenziale difficile da decifrare. Così lo sguardo della poesia si leva sullo sconfortante panorama dei giorni di «questo rovinato tempo, magro della sua bellezza» (p. 29): «l’umanità carnefice» (p. 14), le guerre, i tirannici soprusi nei riguardi dei più deboli, le migrazioni con i loro drammi, l’indifferenza dei più, l’inerzia, l’«indolenza» che alla fine ci sorprende di fronte alla contemplazione ‘da remoto’ di tante tragedie, riducendosi tutt’al più a un se pur nobile compatimento (un «dolersene» «in» cuore). Paradigmatiche le poesie l’inno, sulle persecuzioni subite dalle donne in certi paesi del Medioriente, e al contrario, su certi moniti di certe panchine affinché chi vive ai margini non le scelga come abitazione, limitandosi a «sedere non risiedere». E l’intero libro si fa meditazione filosofica e politico-sociale a partire dalla costante auto-interrogazione su cosa mai, di fronte al male del mondo, possa fare col suo «verbo» la poesia. Su quale compito debba restare l’obiettivo «di chi frequenta i versi e li scrive» (annunciazione II), proiettandosi a far brillare «il valore del verbo essere umano» (p. 28). Un angelo del Botticelli commuove perché sembra manifestare un timore: il «ti more/ di non dire bene ciò che ha da dire» (p. 85). La risposta cui tendere è però allegorizzata dalla riflessione su un’altra raffigurazione (p. 84):
annunciazione I
Notazione su Simone Martini,
l’angelo in ginocchio, i capelli ornati,
di fronte alle ali una donna
nel suo gesto pudico appare scontrosa,
quasi a sdegnare, sebbene di poco
l’incarnazione del verbo. Il verbo io vedo,
Simone lo scrive in rilievo, di così grande valore,
che diventa modellata materia.
Penso oltre, a chi frequenta i versi e li scrive,
scriva come faceva il grande pittore
che conduceva a maturità di forma ogni verbo.
