La verità sulle armi e sulla guerra
11 Marzo 2024
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La verità sulle armi e sulla guerra

In questi ultimi giorni di febbraio ’24 due immagini, specularmente orride e inquietanti, ci hanno impressionato e reso anche molto tristi per un verso e preoccupati ulteriormente per un altro. Il riferimento è all’audio della bimba palestinese e gazewi di appena cinque anni, Hind Rajab, uccisa proditoriamente dalle armi israeliane con la sua famiglia e con i soccorritori paramedici della Mezzaluna musulmana, che stavano andando a soccorrerli dopo aver ascoltato al telefonino le sue grida, che invocavano aiuto, temendo di morire. La seconda si riferisce alla notizia della sottoscrizione di una convenzione grazie alla quale ENI, in compagnia di altre società – israeliane e internazionali – ha siglato un accordo con il governo israeliano, all’indomani – intorno alla fine del mese di ottobre ’23 – dello scoppio del conflitto in cui Israele si sta scontrando con i Palestinesi, identificati tutti con Hamas, un accordo di sfruttamento dei giacimenti di gas offshore all’interno del perimetro marino di Gaza, che è di pertinenza e di proprietà per la massima parte (circa il 68%) dei Palestinesi. Aggiungo, inoltre, la notizia sconfortante, ricolma di segnali assolutamente negativi, del divieto di accesso alla Striscia di Gaza dell’italiana Francesca Albanese, rappresentante delle Nazioni Unite per i diritti civili nei territori palestinesi e in Israele. E il nostro governo è stato completamente silente!
L’attuale governo israeliano, nel pieno del conflitto manda un messaggio inequivocabile e cioè che quel territorio apparterrebbe solo ad Israele; pertanto, i Palestinesi dovrebbero andarsene altrove a vivere. È quanto stiamo vedendo oggi, giornata di San Valentino in cui sto scrivendo queste note, col cuore in gola e con una profonda angoscia pensando che quasi trentamila Palestinesi, di cui gran parte bambini e donne, sono stati massacrati con strategico e lucido cinismo (pensiamo al genocidio in atto) e con cruda insensibilità (i Palestinesi sarebbero tutti terroristi, appartenenti e fedeli ad Hamas!). Che significa questo? Vuol dire che lo Stato di Israele (ci riferiamo alla maggioranza della popolazione di questo Paese, ovviamente, in quanto al suo interno ci sono anche altre posizioni, come quelle di un confronto e di una convivenza pacifica e condivisa fra le due popolazioni, quella araba e quella ebraica!) impone con le armi la sua assoluta sovranità su tutti i territori palestinesi, considerandoli messianicamente appartenenti a sé, e cancellando le risoluzioni dell’ONU del 1948, che prevedono due Stati autonomi. Ma a noi preme la “verità” e questa ci impone drasticamente non solo di essere eticamente e concettualmente chiari, ma anche, senza esitazioni di sorta, di denunciare qualsiasi altra lettura ed interpretazione di parte.
Un po’ come, a conclusione del racconto Sebastopoli a maggio, contenuto in quello che è considerato il secondo libro scritto da Lev Tolstoj e cioè I racconti di Sebastopoli, l’autore condanna senza tentennamenti le atrocità e le sofferenze che le guerre provocano – in questo caso la guerra di Crimea del 1855/56 -, a prescindere da chi le vince o le perde: “Eroe del racconto, eroe che io amo con tutta l’anima e che ho cercato di ricondurre in tutta la sua bellezza, e che è sempre stato, è e sarà meraviglioso, eroe del mio racconto è la verità”. (26 giugno 1855 – I racconti di Sebastopoli, Garzanti, pag.73).
Inoltre, alcuni gravi ed inquietanti accadimenti, così come sono avvenuti in Palestina in particolar modo nel 1949, sono oggetto di narrazione nel romanzo di Adania Shibli, scrittrice palestinese, Un dettaglio minore, (La Nave di Teseo), che prende lo spunto dalla “Nakba” – la catastrofe del 1948 -, ossia l’espulsione violenta di oltre 700.000 Palestinesi dalla loro terra ad opera dell’esercito israeliano. Il romanzo si divide in due parti e noi ci soffermeremo solo sulla prima, lasciando, quindi, a chi legge il presente contributo di completare autonomamente la lettura del libro della Shibli. La prima sezione del romanzo tratteggia l’uccisione di un gruppo di beduini/palestinesi del Negev e dei loro sei dromedari, cui seguono la cattura prima e lo stupro di gruppo poi su una ragazza palestinese. Questa prima parte, attraverso una narrazione quasi diaristica in cui risalta la sfrontatezza arrogante e assolutamente discutibile dei militari, rappresenta anche in chiave ideologica l’assoluta prevaricazione delle armi che si manifesta nella violenza omicida e nella impunità, da un punto di vista penale, dinanzi ad uno stupro, cui segue una lucida, iniqua e arbitraria esecuzione ai danni della ragazza: “La sua mano – dell’ufficiale – destra copriva la bocca della ragazza e la sinistra le stringeva il seno destro. Il silenzio dell’alba fu interrotto dal rumore del letto che cominciò a cigolare con intervalli che si facevano più ravvicinati e intensi, accompagnati dai latrati del cane all’esterno. Alla fine il cigolio cessò, mentre lo stridente abbaiare fuori dalla porta continuò ancora a lungo (…) Ordinò alla guardia di scavare una buca lunga due metri e larga mezzo, proprio in quel punto, disse, indicando una porzione di sabbia che non era diversa dalle altre. (…) L’operazione di scavo venne eseguita in un silenzio quasi assoluto (…) All’improvviso, un grido acuto lacerò l’aria. La ragazza emise un urlo e fuggì via di corsa. Cadde sulla sabbia ancor prima che nell’aria riecheggiasse il sibilo della pallottola che penetrò nel lato destro della sua testa. Regnò nuovamente il silenzio” (p.52; p.61). Lo stupro e l’esecuzione sommaria della ragazza vengono anticipati da un saluto che il comandane dell’ accampamento rivolge ai suoi soldati durante un pranzo, nel corso del quale l’ufficiale enuncia tutta una serie di considerazioni alla cui base ci sono la pretesa e la dichiarazione che i territori palestinesi dovranno essere considerati parte integrante della nazione israeliana: “Il sud è ancora in pericolo e dobbiamo fare tutto il possibile per mantenere la nostra posizione e la nostra presenza in questa regione, altrimenti la perderemo (…) Non dobbiamo mai smettere di concentrare tutte le nostre forze e la nostra determinazione nella costruzione di questo nostro stato nascente, nella sua difesa e salvaguardia per le generazioni future. Ciò implica che spetta a noi stanare il nemico, invece di rimanere in attesa che si manifesti, perché se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo tu per primo. Non possiamo rimanere fermi a guardare queste immense distese di terra che potrebbero ospitare migliaia tra i figli del nostro popolo in esilio, rimanere incolte e in preda all’abbandono, mentre la nostra gente può tornare in patria. Questo posto, che ora sembra un territorio desolato, dove non esiste nulla a parte gli infiltrati, alcuni beduini e i dromedari, è il luogo che i nostri antenati attraversarono migliaia di anni fa. Se gli arabi, assecondando i loro futili sentimenti nazionalistici, rifiutano l’idea che possiamo vivere in questa regione e continuano a opporre resistenza, preferendo che rimanga arida, allora saremo costretti ad agire come un esercito. Nessuno ha più diritti di noi su questa regione, dopo che l’hanno trascurata e abbandonata per secoli, lasciandola nelle mani dei beduini e dei loro animali. È nostro dovere impedire che rimangano qui, dobbiamo cacciarli, una volta per tutte (…)” (pp. 44/45). Le parole dell’ ufficiale israeliano, protagonista della prima parte del romanzo, sono quelle che sentiamo da anni in Israele pronunciate da ampi settori della popolazione di questo paese e ciò non sta bene. Infatti, i palestinesi reclamano la loro assoluta indipendenza e la sovranità piena sulla Cisgiordania, su Gerusalemme est e sulla Striscia di Gaza.
E noi ribadiamo con forza l’auspicio di un mondo in pace, arricchito dalla multiculturalità.☺

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