Lucia joyce: la sirena infelice
8 Marzo 2022
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Lucia joyce: la sirena infelice

Le preziose: con questo titolo apro articoli che parlano di donne di ieri, l’altro ieri, oggi che, come le preziose del settecento hanno agito o vissuto per lasciare il testimone alle altre.

Sulla figura di Lucia Joyce si sono affannati biografi, commediografi, saggisti e poeti; ma a scatenare la curiosità, sulla figlia di James Joyce, è stata per me come per l’autrice di Corpi speciali – La Nave di Teseo ed.2020, una foto datata 1929.

Una ragazza. Bellissima. Indossa un bizzarro costume da sirena, rivestito di scaglie scintillanti. Una gamba è scoperta, l’altra no, a suggerire il profilo di una coda. Braccia nude, piedi scalzi. Sulla testa un cappuccio aderente, anch’esso intessuto di scaglie. Il corpo flessuoso mantiene l’equilibrio in una posa instabile, diagonale.

Questa foto così rara è stata scattata in occasione di un festival internazionale di danza che si svolgeva nell’immensa sala del Bal Bullier, nel quartiere Latino a Parigi. Siamo negli anni Venti. Ai concorrenti era stato richiesto un numero creato appositamente da un coreografo seguito da una improvvisazione a sorpresa. Lucia idea il ballo della Sirena, sceglie il brano musicale di accompagnamento e realizza quel fenomenale costume con le sue mani. Il pubblico ne rimane incantato. Fra gli spettatori ci sono le due persone il cui giudizio è per Lucia molto importante, suo padre James e l’uomo del quale era innamorata, Samuel Beckett.

Pare destinata a un futuro sulle tavole del palcoscenico, così brava da far sbilanciare un critico nell’azzardata previsione: “Un giorno si parlerà di James Joyce come del padre di Lucia”. Nel 1913 James aveva scritto diverse poesie a questa sua adorata figlia, e Carol Loeb Shloss, autrice dello splendido libro Lucia Joyce. To Dance in the Wake (2005), fa notare come Lucia divenga la prima “sirena” di suo padre, la musa ispiratrice che però si ritrova costretta in questo suo ruolo passivo: lei pure è un’artista, e vuole spazio e voce, e questo può essere un fatto cruciale che spesso passa inosservato. Lo stesso Joyce ammetterà: “Qualunque scintilla o dono io possieda è stato trasmesso a Lucia, e ha fatto divampare un incendio nel suo cervello”.

Ma qualcosa si rompe e Lucia comincia a dare segni di squilibrio. I segnali di una precaria salute mentale si erano già manifestati ma non erano mai stati presi in considerazione da un punto di vista medico. “È la persona più intelligente che conosca”, dice di lei il padre. Il loro rapporto è intenso, cerebrale, condividono un linguaggio privato i cui codici segreti si trasferiranno sulle pagine di Finnegan’s Wake, l’opera più misteriosa di Joyce. Con la madre Lucia ha un rapporto conflittuale.

Viene ricoverata per la prima volta in sanatorio il giorno del cinquantesimo compleanno di suo padre. Nel corso di un’accesa discussione con la madre Nora, le ha scagliato contro una sedia. Non si saprà mai quale fosse l’origine di quello che il padre definì “Un fuoco nel cervello”, acceso da “Ogni scintilla di talento che io possiedo e che a lei ho trasmesso”. Sappiamo però che dal momento in cui James Joyce accetta che il comportamento imprevedibile della figlia non sia solo il frutto di un’intelligenza speciale ma nasconda un disturbo profondo, ogni suo gesto e pensiero sarà volto a trovare il modo per aiutarla.

A trentatré anni Lucia avrà fatto il giro dei manicomi europei, sarà stata sottoposta a un’infinità di controlli, avrà sperimentato cure e terapie di ogni genere, dall’isolamento totale alla camicia di forza, dal riposo indotto alle iniezioni di acqua marina. Molteplici le diagnosi: schizofrenia con elementi pitiatici, nevrosi, ciclotimia. Il padre non si arrende, spende per lei una fortuna ma nessuno è in grado di fornire una risposta alla sua domanda: “Di cosa soffre mia figlia?”.

Dopo migliaia di sterline spese, ventiquattro dottori, dodici infermiere e tre istituti che l’hanno accolta non tanto comodamente, l’unica speranza di Lucia resta un luminare: Carl Gustav Jung. Joyce e Jung non si piacciono ancora prima di conoscersi.

Di fronte al romanzo di Joyce Ulisse, Jung sostiene che tale opera può provenire solo da “una persona con severe restrizioni cerebrali”, un uomo capace esclusivamente di “pen- siero viscerale”, e che ha composto “col sistema nervoso simpatico per mancanza del cervello”. Il trattamento con Jung (che durerà quattro mesi) non dà alcun beneficio, al punto che lo stesso specialista sconsiglia il proseguimento. Rileverà “elementi schizoidi” in alcune poesie scritte dalla ragazza. Joyce si opporrà all’analisi sottolineando il significato artistico di quei versi, a suo giudizio innovativi e portatori di “una nuova letteratura”. È l’intelligenza a farla soffrire.

Quando Joyce andrà a prendere la figlia in Svizzera, congedandosi da Jung dirà: “Lucia ed io nuotiamo nella stessa acqua”. “Sì, ma lei sta affogando”, sarà la replica dell’analista. Il fallimento delle terapie indurrà Jung a distruggere le cartelle cliniche. È il destino che subiranno tutti i documenti riguardanti Lucia Joyce: le lettere, i diari, i disegni, le poesie, i referti clinici, le fotografie, e addirittura un memoir da lei scritto in manicomio dal titolo La vera vita di James Joyce, sono distrutti da Stephen, l’unico nipote di Lucia. Sostenendo di voler difendere e proteggere la memoria della sua famiglia, ha compiuto gesti sconsiderati e gravissimi.

E così di Lucia si sa poco. Ha ventotto anni quando il mondo per lei cessa di esistere. Nel 1935 viene internata in un sanatorio alle porte di Parigi. La sua condizione peggiora, non parla, rifiuta il cibo, appicca il fuoco nella stanza in cui è ricoverata, scrive telegrammi ai morti, tenta il suicidio. Il padre è l’unico che va a trovarla, ma quando muore improvvisamente, nel 1941, Lucia apprende della sua morte da un giornale. Parecchio tempo dopo dirà a un visitatore: “Cosa sta facendo sotto terra quell’imbecille? Quando si deciderà ad andarsene? Ci sta guardando tutto il tempo” (C.L. Shloss, Lucia Joyce. To Dance in the Wake, pag. 410) – uno sbottare che spiega molto del suo sentirsi perseguitata da questa figura paterna.

Il suo far così parte di suo padre fa sì che lo stesso autore abbia commentato, riferendosi alla stesura del Finnegan’s Wake: “Qualche volta mi dico che quando lascerò questa lunga notte, lei pure guarirà”. Dopo la morte del padre viene trasferita nel manicomio di Northampton, in Inghilterra, e lì dimenticata. Cinque anni dopo, nel 1982, Lucia Anna Joyce muore. Ha settantacinque anni.

“Dopo aver conosciuto la sua triste storia, mi accorgo che il suo sguardo non è come mi era parso, concentrato nell’esecuzione, ma è rivolto verso il precipizio”.☺

 

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