maternità estrema
13 Aprile 2010 Share

maternità estrema

 

“…Sono venuta in Italia, come tantissime del mio Paese, “sola”, senza protezione, abituata a vivere tra sorelle e cugine e a contare sulla famiglia. Volevo mantenerla questa famiglia a cui voglio bene. Poi ho concepito la mia creatura, e non è stato per amore, ma per qualcosa che non voglio ricordare e che non mi doveva succedere. Ma non voglio parlarne.

Da subito ho pensato, almeno devo dargli la vita. Esiste il parto segreto, questo lo sapevo. Troverà una famiglia. Ma in ospedale, fuori Roma, non hanno voluto ascoltare i segnali della richiesta di lasciare la bambina, richiesta che non riuscivo a esprimere completamente. Gli occhi delle infermiere erano pieni di rimprovero. Mi hanno portato tante volte dopo il parto la bambina per allattarla. Un’infermiera ha gridato contro le madri incoscienti. Mi sono vergognata, avevo la sensazione che tutte le madri mi guardassero male, che mi giudicassero una donna cattiva. Sono uscita con la bambina che mi bruciava in braccio come fuoco, non capivo se le volevo o no bene. Le ho pensate tutte, veramente tutte. Ho provato a tenerla con me, ma stavo sempre peggio. Non avevo da vestirla, da nutrirla, di che vivere io stessa, ma più di tutto non la accettavo. Una notte l’ho lasciata. L’ho lasciata in un posto frequentato da connazionali. Qualcuno l’avrebbe trovata, si sarebbe messa a piangere presto perché era l’ora della poppata; era bella calda avvolta in una coperta, non le sarebbe capitato niente di grave. Un’altra madre l’avrebbe allevata meglio di me.  Ma dopo averlo fatto ho incontrato una donna anziana del mio Paese che mi ha visto piangere e mi ha fatto parlare. Mi è sembrata che la mia mamma morta l’avesse mandata sulla mia strada. L’abbiamo ripresa subito insieme. Dormiva tranquilla sotto la sedia, tra le scatole che la nascondevano, nessuno si era accorto di niente. È iniziato poi un periodo difficile, in cui ho pensato di non farcela. Dio mi ha dato una seconda occasione. Ora inizio a volerle bene davvero e mi sono ripresa anche economicamente, perché ho un piccolo lavoro e non manca il minimo indispensabile. Soffro ancora tanto e ho bisogno di aiuto. La gente non sa quanto possiamo soffrire lontano da casa, senza mezzi. Dovrebbe esserci più comprensione, perché tante donne, sono sicura, hanno vissuto un’esperienza simile alla mia, ma non hanno avuto una seconda possibilità…”.

La storia di Margherita è una testimonianza toccante, tragica, di come il panico, il terrore, il momento del parto – che di per sé è quello che è – possono trasformare una madre, una creatura non particolarmente aggressiva, in un’infanti- cida. Perché quello delle immigrate è un flusso continuo di donne che cadono subito in condizioni rischiose: le maternità impossibili, quelle nelle quali maturano le situazioni  estreme, anche psichiche, che non di rado si concludono con un infanticidio. Tragedie di regola silenti, nascoste, di rado emergenti ai livelli della cronaca, ma assai meno infrequenti di quanto si possa pensare e tali da segnare in modo grave e duraturo intere esistenze. Tragedie che si consumano sovente con la complicità di un sussidio della nostra vita quotidiana, umile ma di grande rilievo per l’igiene pubblica, messa a rischio dai residui che il percorso giornaliero di tutti, nel mondo occidentale, si lascia indietro ogni sera: il cassonetto della raccolta dei rifiuti urbani. Niente armi da fuoco o da taglio, niente esposizioni, niente rischi di tracce traditrici: una busta di plastica, un contenitore che sarà presto svuotato dalla diligenza del servizio pubblico, una serie di gesti usuali, come quelli che tutti compiamo prima del riposo notturno. ☺

 

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