Mi sta a cuore
5 Novembre 2019
laFonteTV (3827 articles)
Share

Mi sta a cuore

Don Lorenzo Milani è nei miei pensieri con fastidiosa invadenza, in questo principio di anno scolastico. Non mi lascia in pace, non lascia in pace la mia inadeguatezza a fronteggiare situazioni come quella di Paolo, di Michele, di Antonio (e se i nomi sono di fantasia, chi c’è dietro nella realtà è vivo, è vero, e ha bisogno di una scuola che non c’è).

Classe prima di una scuola media, enormi disparità nei livelli di partenza, comportamenti profondamente destabilizzanti da parte di un piccolo ma tenace gruppo di allievi che cercano di ostacolare con arroganza, con modi rozzi, ogni attività, ogni parola, ogni tentativo di “fare geografia” (unica disciplina là insegnata), perché fondamentalmente non riescono a stare al passo con la classe, hanno lacune enormi, e si sentono frustrati: fanno rabbia, mettono a dura prova la pazienza, ma sono “solo” bisognosi di un intervento diverso, in cuor mio lo so. Forse di una scuola diversa. Che non c’è.

E allora, a sera inoltrata, dopo una giornata pesante, nel silenzio della casa che, quando fa buio, tace, mi reimmergo in lui, mi ritrovo a parlargli chiedendogli un aiuto. Le sue pagine sono un rimprovero e un balsamo per l’anima, al contempo.

Chi era, chi sia stato, non tocca a me dirlo, nello spazio poi di un articolo ci può stare a stento una riflessione incompleta. Ma mi metto a scrivere, utilizzando (il direttore mi perdonerà), come a volte mi capita, la scrittura in funzione terapeutica: mi riordina le idee e il sentire, mi aiuta a raccogliere le emozioni, a dar loro un nome, a gestirle meglio. Ci provo, stasera. D’altronde anche don Milani aveva una gran “fissa” per la parola: diceva che “fa eguali”, ci rende tali, abbatte le differenze sociali, permette ai poveri che la posseggono di non farsi prendere in giro dai ricchi, e dunque possederla (anzi, aiutare a possederla chi non ce l’ha) aiuta a sovvertire un ordine sociale ingiusto.

È la ricchezza del vocabolario, diceva, a rendere subalterni o egemoni gli uomini. La disuguaglianza tra gli individui si combatte dando ai poveri lo stesso numero di parole dei ricchi e arricchendo il loro vocabolario. La parola, la lingua, sì: utile ad acquisire pensiero libero, consapevolezza critica, autonomia di giudizio, responsabilità di decisione.

Esiliato dalla curia fiorentina, lascia San Donato di Calenzano e si arrampica a Barbiana, nel 1954, sperduta tra le montagne: qui non si scompone, inizia a lavorare sodo, sa che non se andrà, che è arrivato dove è stato chiamato da Dio, non esiliato dalla chiesa locale. Appena arriva, fonda la scuola popolare con dieci ragazzi e va in comune a comprare una fossa nel cimitero sotto la chiesa.

Non c’è tematica del suo tempo di cui non si sia occupato nella sua scuola, anche tramite la lettura dei quotidiani. Ciò permetteva ai suoi ragazzi di sviluppare il linguaggio e di migliorarlo, oltre che prendere coscienza dei problemi sociali e capire come affrontarli. Il linguaggio, questo grande sconfitto, grande dimenticato dalla scuola italiana e dalla formazione degli insegnanti: come se laurearsi in Lettere, tanto per dire, bastasse a saper insegnare la lingua madre agli italiani. Una delle discipline più complesse da insegnare, e dalla valenza orientativa più ricca, lasciata alla completa arte di arrangiarsi (o di autoformarsi) dei docenti italiani di italiano. E scusate il gioco di parole.

La scuola che il priore istituì a Barbiana si svolgeva da aprile ad ottobre all’aperto, mentre durante l’inverno si svolgeva dentro i locali della Chiesa. Dalle 8 alle 19:30, con una breve interruzione per il pranzo, 365 giorni all’anno. Non si faceva né la ricreazione né i giochi; al loro posto c’erano le “materie scolastiche appassionanti”, cioè ad esempio lo sciare  durante l’inverno e il nuotare d’estate in una piccola piscina che era stata costruita dagli stessi ragazzi.  C’erano anche delle officine dove si insegnava ai ragazzi a lavorare il legno e il ferro. Niente voti né pagelle, né rischio di bocciature. L’argomento della lezione e i contenuti, i “programmi” (che non esistevano) diventano secondari nel metodo milaniano, dato che ogni occasione è buona affinché i ragazzi imparino qualcosa; l’importante è che la lezione sia sempre caratterizzata da una partecipazione attiva, dalla collaborazione, dall’interesse vivo e propositivo dei ragazzi. Una flipped classroom di montagna, insomma.

La chiave più importante della sua scuola però, della sua profonda intuizione pedagogica, è altrove. Più di dieci anni fa, a cena con alcuni amici, raccolti con me intorno a Francuccio Gesualdi (suo ex allievo, fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e relatore, all’epoca, in un convegno locale sui nuovi stili di vita), una frase ci rimase nel cuore. “Ma in che cosa consisteva insomma il cuore del metodo didattico di don Milani?” e lì ad aspettare la rivelazione di un segreto. Lui ci guarda, gomiti sul tavolo, mani incrociate davanti al viso, un sorriso: “Era l’amore. Don Lorenzo ci amava, e questo era tutto”.

E stasera ripenso a Paolo, a Michele, ad Antonio. Aldilà delle strategie, delle metodologie e dei bla bla…li amo? Quanto si sentono amati? È politicamente corretto parlare di amore nella relazione educativa? Sì, lo è. È compito dell’educatore “amare”, far sentire amato il suo allievo. Non c’è apprendimento senza amore, comincio a pensare dopo 18 anni di insegnamento. Non tantissimi ma nemmeno pochissimi.

Per don Milani era importante che la scuola permettesse ai ragazzi di uscire dai confini del loro paesino, di loro stessi, dalle ristrettezze di una formazione povera, proiettandoli verso il mondo. La scuola doveva superare ed annullare, non cristallizzare, le differenze sociali. Doveva, deve. Lo fa? No. Se ci riesce, è per la buona volontà del singolo docente, che agisce fuori dal coro, non per l’effetto di un sistema che funziona, che è costruito su questi valori. Lettera a una professoressa, d’altronde, può essere considerato il più bel commento all’articolo 3 della nostra Costituzione, secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti.

L’insegnamento della lingua italiana, dunque. Così come l’aderenza alla realtà (una didattica per competenze ante litteram?), lo spirito laico, la centralità dell’autorevolezza dell’educatore (un ruolo da risistemare da capo a piedi, in crisi e privo di dignità sociale com’è ormai), la metodologia cooperativa, l’apertura alle altre culture, all’“altro”, al diverso, il rifiuto della selezione (per lo meno nella scuola dell’obbligo), la sfida di insegnare a non obbedire acriticamente, in quanto “l’obbedienza non è più una virtù” ma, a livello sociale, la più devastante delle tentazioni e a livello individuale la più subdola.

A cinquant’anni e poco più dalla sua scomparsa don Lorenzo Milani ci toglie ancora il sonno per tutto quello che non abbiamo fatto, che non facciamo. Ma ci regala anche la speranza di godere di un’alba migliore, domattina, perché conosciamo la strada da seguire. Qualcuno l’ha già tracciata per noi, dobbiamo solo avere il coraggio di metterci in cammino.☺

 

laFonteTV

laFonteTV