
Oro di là dalla finestra
Quanto mai adatto alla voce di Carlo di Francescantonio è il nome «Sottotraccia» della collana diretta da Antonio Bux per Marco Saya Editore, in cui è uscita la sua ultima raccolta Oro argento e ferro (ottobre 2024). Il poeta in questione, infatti, appartiene a quella rara e nobile schiera di artisti che non sgomitano e non strillano per farsi notare, né si precipitano a saltare sul carro di un poeta-vincitore, incensandolo con la speranza di ricavarne autorevoli appoggi. È giunto addirittura – cosa più unica che rara – a pubblicare raccolte ‘in condominio’, come le due scritte insieme al da poco scomparso Mirko Servetti (Uomini in fiamme, Ensemble 2018, e Il carico umano, Terra d’ulivi 2022). Quella di cui parliamo è una silloge tripartita, di statuaria bellezza. I tre materiali del titolo corrispondono alla plastica scultura di tre parti, delle quali l’oro corrisponde ai nostri primi anni, l’argento a una giovanile maturazione, il ferro a un presente aspro quant’altri mai per la durezza degli animi, di gente affaccendata – per lo più senza scrupoli e senza rispetto per la delicatezza e per i deboli – in traffici comunque destinati a spegnersi in un comune, collettivo annientamento, contemplato con disincanto. Naturalmente, sullo sfondo campeggia l’antico mito della degenerazione delle stirpi umane attraverso le successive età, appunto, da quella dell’oro a quella del ferro (rispetto alla serie archetipica in Le opere e i giorni di Esiodo mancano l’età del bronzo e – non a caso – quella degli eroi). L’autore è ancora giovane (classe 1976), ma è il mondo in cui si è ritrovato a imporgli un pessimismo da crepuscolo della vita, che quasi nemmeno la consolazione della poesia riesce a dissipare interamente. La consolazione della poesia altrui («Ma se hanno/ fallito Dante, Petrarca,/ […] un destino matto di secoli andati,/ ci riusciranno poeti nati sgonfi?»), così come la consolazione della propria. Questi testi di taglio leopardiano sono spesso mirabili. Spicca in particolare l’‘aurea’ sezione I, quella dell’infanzia-prima adolescenza (la II è un poemetto continuo in strofe per lo più di 11 versi; la III riprende una misura per sconsolate grida isolate), chiusa dalla pura e semplice citazione di sette, fresche e belle, poesie scritte da una bambina, Virginia Ravella, di otto anni. La stessa Virginia che a sette anni, in un altro testo, chiede ingenuamente «è vero che le cose più brutte/ che si passano nella vita sono sogni?». Aprendo il libro, sfilano subito (monumentali) sotto i nostri occhi la casa di campagna del nonno, un palloncino perduto, gli autoscontri delle giostre già teatro delle vessazioni dei bulli, un bar con biliardo soppiantato dall’«ingom- brante volgarità della banca», una povera cucina di una famiglia contadina, una collina con un cimitero («facciamo in modo che il dolore / non ci scavi troppo»), dove a ogni proprio compleanno l’autore va a incontrare le persone care: «e quando scendo/ verso il paese/ con tutto quel silenzio alle spalle/ e l’incerto davanti/ mi sento terribilmente vivo». E ancora un’anima piena di memorie, per esempio di quel terrazzo su cui il calabrone punse una mano, sì che la madre corse a sbucciare una curativa patata: «Ricordo la fetta/ sopra quel bruciore/ che non bruciava./ Poi dopo invece si brucia/ per sempre. Ma oggi/ mi piacerebbe tenerci ancora stretti ed essere/ così luminosi da diventare noi/ l’Amor che move il sole e l’altre stelle».
Mirko Servetti, il poeta dedicatario del libro («M. aveva strumenti d’oro che vivere/ ha tradotto in argento, poi in ferro»), gli diceva, evidentemente a proposito dell’illusione nella letteratura, una frase ora qui citata in un esergo: «…tanto, Carlo, cosa abbiamo da perdere?»; così, ora, a Mirko, Carlo di Francescantonio risponde con la solenne malinconia della poesia Il vetro:
quanti giorni terreni, Mirko,
senza essere terrestri.
La fame del verso, la porta
della vita che sbatte.
È sempre tutto un poco
che adesso diventa niente
eppure è qualcosa che resta
nel tempo che lasciamo
dietro il vetro, la finestra