piergiorgio e don milani
17 Aprile 2010 Share

piergiorgio e don milani

 

Della mini-biblioteca annessa alla Bottega del commercio equo-solidale di Campobasso si è sempre occupato Piergiorgio: dalle sue mani affusolate, con quel loro tocco leggero, i libri ricevevano una cura amorevole e attenta, specie se firmati don Milani.

Oggi parliamo di don Milani, perché è don Milani e perché lo dobbiamo a Piergiorgio.

Don Milani cominciò ad essere noto ai più in Italia dal 1967, anno in cui venne pubblicato Lettera ad una professoressa. Opuscolo di denuncia, durissima, dello stato in cui versava la scuola italiana del tempo scritto dai ragazzi di Barbiana del Mugello sotto la guida del loro priore e maestro don Milani, Lettera ad una professoressa non circoscrive il discorso polemico alla scuola, ma dissente dall’intera società italiana, di cui la scuola non sarebbe che una riproduzione in piccolo: se la scuola è basata su discriminazioni di classe, trasmette un sapere-belletto, promuove una competizione malsana, è perché la società nel suo insieme è fondata sull’ingiustizia, sull’ostentazione e sul consumo sfrenato, sulla meritocrazia agonistica e vacua. Questo l’assunto di don Milani e dei suoi ragazzi.

Lettera ad una professoressa segnò un punto di rottura nel paradigma di rappresentazione che scuola e società italiane del dopoguerra avevano diffuso di sé, un vero scossone per la coscienza degli insegnati, degli allievi, dei cittadini più sensibili; nel 2007, sebbene qualche critico arguto consideri il discorso di denuncia e le proposte alternative di don Milani superati per sopravvenuti limiti storici e ideologici, Lettera ad una professoressa è un libro attuale, una silloge di verità che, a chi consideri con attenzione, ancora bruciano e fanno male, prive come sono rimaste di soluzioni efficaci.

Il diploma è quattrini

Un estratto tra i tanti possibili, mentre che sfogliavo per rinfrescare la memoria; mi ha colpito, oggi è stato il primo giorno di scuola. Parla uno dei ragazzi di don Milani:“Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare. Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro. Dietro ai quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello”.

Divenuto livre de chevet della contestazione italiana degli anni sessanta, Lettera ad una professoressa è il momento più alto della celebrità di don Milani e corrisponde alla piena maturità dell’uomo e del pastore. Ma la vita di don Lorenzo prima di allora era stata già ricca di esperienze quanto frastagliata.

Nato a Firenze nel 1923 da una colta famiglia borghese, don Lorenzo aveva saggiato di persona le complicità di classe con gli orrori del nazifascismo: la sua famiglia, tutta accademici, aveva condiviso nel bene e nel male le sorti di tante altre buone famiglie che costituirono il retroterra del fascismo. Alla famiglia, però, don Milani riservò in un breve giro di tempo un duplice tradimento: nel 1941, quando, disattendendo le aspettative dei genitori che speravano per lui un curriculum universitario in linea con la tradizione dei Milani, si iscrisse alla Accademia di Brera a Milano, per studiare pittura; peggio nel 1943, quando interruppe gli studi di pittura per entrare in seminario e di lì essere ordinato sacerdote, nel 1947.

E, quasi un contrappasso all’ambiente in cui era cresciuto fino alla giovinezza, in don Milani la vocazione al sacerdozio assume da subito una connotazione marcatamente democratica e coincide con la volontà di spogliarsi di ogni privilegio: don Lorenzo non amerà rivolgersi ai borghesi e si schiererà rigorosamente e senza  timori dalla parte degli ultimi. Di qui lo scandalo legato alla sua figura e alla sua opera, in un’Italia ancora abituata ad una Chiesa e ad una corpo ecclesiastico pronti a rispondere al cenno dei potenti, culturalmente, socialmente, economicamente. Così, per esempio, quando nel 1958 don Milani pubblicò Esperienze pastorali, Monsignor Florit, vescovo di Firenze, fece ritirare l’opuscolo dalle librerie, ritenendolo “inopportuno”: nella riflessione sul suo primo decennio di apostolato don Milani aveva mostrato uno spirito troppo attento alle istanze egualitarie e di giustizia, evangeliche queste sì, tanto deluse dalla realtà, e la sua polemica vibrata contro l’esistente risultava troppo eversiva per non dover essere censurata.

 

Nonostante le frizioni continue, gli scontri addirittura con la sua Chiesa, Don Milani rimarrà sempre persuaso della bontà della sua scelta di apostolato e l’essersi accostato ad un cattolicesimo impegnato ed aperto alle urgenze del reale, nelle sue screziature meno armoniche, più dissonanti, nulla toglie al rigore e alla lealtà della sua fede, se mai la rende più sofferta.

Così scrive in una delle sue lettere: … T’ho scritto solo per metterti in guardia contro te stesso e per difendere la mia carissima moglie Chiesa che amo tra infiniti litigi e contrasti, come ogni bon marito sa fare”; e ancora: “ … non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa “

Il fatto è che per don Milani è fede agire dentro la Storia, che è poi la fede di un grande santo a lui caro, l’apostolo Paolo, che scuote il cristiano convertito dicendo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”. Se il Dio di don Milani è immanente, interagisce con la storia delle sue creature, il suo apostolo don Lorenzo non può astenersi dalla partecipazione attiva e sentita a ciò che è umano; motivo per cui don Milani non si eclissa né in parole né in opere quando, negli anni sessanta, in Italia ferve il dibattito politico-culturale sull’omologazione, sul consumismo, sulla società di massa, sulla scuola, sulla guerra.

La guerra

Qui torno a Piergiorgio, insegnante e prima ancora non violento. Dei libri di don Milani, Piergiorgio aveva a cuore in particolare L’obbedienza non è più una virtù, perché ben riassume il credo di obiettore al servizio e alle spese militari che Piergiorgio ha sostenuto con fermezza fin da tempi impensabili, quando l’obiezione era una scelta difficile e passibile di conseguenze penali.

L’obbedienza non è più una virtù è un testo multiplo: contiene l’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo, pubblicato dalla Nazione nel febbraio del 1965, dove tra le altre i cappellani militari avevano definito un “insulto alla patria” e “un’espressione di viltà” l’obiezione di coscienza al servizio militare; la Risposta ai cappellani militari, pubblicata da Rinascita nel marzo del 1965, con la quale don Milani replicava al suddetto ordine del giorno dei cappellani militari; la Lettera ai giudici, risalente all’ottobre dello stresso anno, con cui don Milani, non potendo presentarsi alla udienza fissata per la fine del mese, si difendeva dall’accusa di apologia di reato presentata nei suoi confronti da un gruppo di ex-combattenti alla procura di Firenze; infine, la sentenza di assoluzione guadagnata da don Lorenzo nella causa.

I testi di don Milani commuovono per la vastità del sentimento, per la profondità delle riflessioni, per la stringatezza delle argomentazioni. C’è da leggere tutto e in diretta, come sempre.

Mi permetto solo un paio di stralci, tre a dirla franca.

Nel primo, proveniente dalla Risposta ai cappellani militari, don Milani discute l’idea di Patria, alla quale i cappellani militari si erano appellati per accusare gli obiettori, e conclude con una memorabile lezione di civiltà: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati ed oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

Coi due secondi brani, appartenenti alla Lettera ai giudici, don Lorenzo, mentre spiega il suo intervento a favore degli obiettori di coscienza, da una parte richiama il dovere della responsabilità, tale per cui la guerra, coi suoi orrori, è colpa di ognuno che anche indirettamente la sostenga, quindi  mette in forse il valore assoluto della obbedienza alla legge ed esalta per contro l’obiezione come atto supremo e nobile della coscienza: “Ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”… E’ il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”… Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio:  “tant’è ladro chi ruba che chi para il sacco”. Quindi: “In quanto alla loro vita non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è d’obbedirla. Posso dire loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste, cioè quando sono la forza del debole, quando invece vedranno che sono ingiuste dovranno battersi perché siano cambiate… e quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”. Ciao, Piergiorgio. ☺

 

 

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