Più immigrazione, meno lavoro?
17 Maggio 2018
laFonteTV (3191 articles)
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Più immigrazione, meno lavoro?

Lavoro ed immigrazione: due temi collegati più di quanto si possa immaginare e che viaggiano a braccetto con l’avanzare dei tempi moderni. Questo a maggior ragione in una realtà come quella del Bel Paese, il quale geograficamente sul fronte immigrazione fa da porta d’accesso ideale per accogliere i flussi provenienti dal Maghreb e dall’Africa sub Sahariana e che vive in maniera più accentuata rispetto ad altri stati la cronica carenza di impiego.

Il parallelismo enunciato nel titolo è voluto, in questo caso, ma di fatto sta divenendo realtà nell’immaginario comune nel voler attribuire al flusso migratorio, per la parte maggiore, l’ingrossamento delle fila dei disoccupati di lungo corso. Evidentemente non può essere così, ma appare difficile sovvertire un pensiero comune in formazione, anche alla luce del sentimento del corpo elettorale che indirizza le forze reazionarie in direzione della tutela dell’identità nazionale.

Lavoro ed immigrazione strettamente connessi, dicevamo, ma è falso e tendenzioso attribuire allo straniero, spesso visto come diverso, i mali di vent’anni di precarizzazione, svilimento della figura del lavoratore e della graduale ma costante perdita di diritti che ha progressivamente indebolito gli organici del settore pubblico e privato. Lo Statuto dei Lavoratori è ormai un feticcio destinato al ricordo di un passato irraggiungibile non solo a livello temporale, perché paradossalmente garantiva maggior sicurezza quando si era solo agli albori della nascita della rete di tutele.

I mali del nostro vivere quotidiano, i mali patiti dalla messe dei precari, dei lavoratori scontenti e dei disoccupati, risiede piuttosto in tutto ciò che gradualmente agli impiegati è stato sottratto, a prescindere se sia nato in Italia o meno. In tal senso le morti sui luoghi di lavoro, all’ordine del giorno, gridano vendetta e questo c’entra ben poco con i flussi di migranti, ai quali affibbiare le colpe; è più semplice, quando invece è sotto gli occhi di tutti la perdita di identità del singolo posto di lavoro.

Attribuire una grossa parte di responsabilità di questo imbarbarimento generale al mondo politico sarebbe facile, comodo, scontato, ma non è distante dalla verità. La politica ha perso il senso dell’essere vettore e risposta alle necessità dei cittadini ed è completamente slegata dalla realtà e da quelle che sono le vere esigenze dell’opinione pubblica. La politica è ormai altro rispetto al popolo, ed ha perso identità rispetto a se stessa. Se la politica, a livello nazionale, così come a livello locale, minore per importanza, ma non certo esente da equipollenti responsabilità, interpretasse realmente le esigenze della collettività, darebbe spazio alla dignità dell’essere umano nel mondo lavorativo e farebbe a meno di misure improbabili e palliative quali il reddito di cittadinanza e di inclusione, quest’ultimo riedizione del più nobile salario sociale, e farebbe altrettanto a meno di precarizzare anziché stabilizzare un rapporto subordinato attraverso gli ex articoli 18 o nuovi Job Acts.

La politica, se tale fosse, farebbe i conti con i dati aggiornati a qualche settimana fa riguardanti gli incidenti sul lavoro, morti che annoverano tra le proprie meste fila anche quegli stessi immigrati ritenuti la causa della mancanza di impiego per gli italiani. I lavoratori non hanno colore, non hanno nazionalità come anche le morti bianche: gli incidenti sul lavoro nel nostro paese sono in progressivo aumento: circa 200 da inizio anno secondo l’Osservatorio di Bologna, per un incremento di circa il 10% se rapportiamo i dati agli stessi mesi del 2017. Muoiono italiani, rumeni, cingalesi, senegalesi. Poco conta la provenienza o la pigmentazione. Le tutele mancano per tutti ed in Italia si continua a morire ogni anno sempre di più, come se il progresso stesse procedendo in senso opposto rispetto al futuro.

Eppure, contestualizzata a livello regionale, l’evidenza che le fabbriche chiudono, gli investimenti delocalizzati e le eccellenze costrette ad emigrare – loro sì – altrove, dovrebbe facilmente ricondurre tra i motivi la mancanza di infrastrutture viarie a 360 gradi, che tagliano fuori la nostra realtà da ogni scambio commerciale, da ogni futuro ed investimento che crei lavoro. Gli immigrati in questo scenario c’entrano ben poco, eppure qui come altrove spesso se n’è fatto un punto centrale della campagna elettorale, vedasi il populismo di Orban, Kurz e simili.

Se si fosse realizzata una seria rivisitazione dei collegamenti viari sulla bozza di quel miraggio rappresentato dalla Termoli-San Vittore per garantire alla nostra regione un collegamento degno di tal nome, veicolo di passaggio e di sviluppo; se si fosse garantito un serio collegamento su rotaia rispetto ai viaggi della speranza indegni che ascoltiamo ogni giorno attraverso racconti che sembrano impossibili; se la politica si fosse fatta carico di tutto questo, che resta il mezzo per la speranza di esistere e sopravvivere di una realtà di 300mila anime, forse staremmo palando di altro e gli immigrati non sarebbero visti come un problema ed usurpatori di lavoro.

In questa considerazione, tuttavia, ci sono troppi se e troppi forse. Se non vi fossero, la distanza che separerebbe i cittadini dai palazzi del potere non sarebbe che irrisoria, ma vivremmo in un’irrealtà con cui chi governa e governerà non vorrà mai fare i conti. Pertanto le posizioni tra percezione e paese reale resteranno sempre distanti, con buona pace di chi eleggiamo, perpetuando luoghi comuni e tesi distanti da ciò che viviamo ogni giorno.☺

 

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