quale dio?
13 Aprile 2010 Share

quale dio?

 

«Mi sono spesso chiesto  perché la chiesa fa da sempre più fatica a trattare con le vittime innocenti che con i carnefici colpevoli…. I cristiani non sono solo praticanti, ma anche mistici della giustizia, comunque mistici “con gli occhi aperti”, mistici con una compassione che oggi, a mio avviso, è diventata una delle parole chiave della sequela di Gesù» (J.B.Metz).

Notte di Halloween, 1° novembre, festa dei Santi, 2 novembre, memoria cristiana dei morti, 4 novembre, memoria della vittoria della grande guerra, con relative celebrazioni, ognuno con le sue liturgie, tanto religiose che civili o mediatiche, si susseguono in questi giorni. Una sequenza che il calendario ha composto con il risultato di uno strano mix di religione pagana, cristiana, politica e civile, dove ognuna assume dalla religione una ritualità che fa propria, introducendo concetti  inospitali perché apportatori di corruzione. Ognuno celebra, ovvero “glorifica” i propri: streghe, santi, i padri e antenati, gli uccisi dalle guerre, detti “caduti”; si tratta comunque di morti, tanti e, purtroppo, molti vittime innocenti. Collocate dentro concezioni tranquillizzanti che offrono la capacità di rendere «le vittime invisibili e le loro grida non udibili», le loro vite sono consegnate ad un passato glorioso che nulla dice più al presente. Maschere, fiori, lumini, assemblee, corone, sfilate saranno i gesti con cui ci porremo “di fronte” ai morti, ma, ben lontano dall’entrare in quel mistero della vita che conosce paure, beatitudini, presenze, sacrifici nel tempo breve dell’esistenza, percorso unico e irripetibile. Sebbene i nomi di alcuni risultino scolpiti sulla pietra, in monumenti esposti alla visibilità collettiva, la “memoria” non ci inquieta, ci basta “glorificarci” di loro: le liturgie si accavallano, la vita e la morte rimangono all’orizzonte sfumate nella loro dignità e mistero.

Una stagione culturale che all’apparenza si riconosce laica e secolare, capace cioè di radicarsi nel valore proprio delle cose innervate nel tempo e nello spazio, ci costringe ad essere  testimoni di una continua “trasfigurazione” della realtà e della sua non rappresentazione veritiera. 

La sensibilità per cammino etico liberante e generatore di futuro penso abbia tre pilastri comuni su cui poggiare:

1) Rendere visibile la realtà.   

Con solerzia concordante, nell’attuale crisi finanziaria, i governi hanno proclamato una “escatologia” (attesa delle cose future e finali) protetta da ogni rischio e pericolo, capace di nascondersi dietro l’impronta di distruzione dei propri “zeloti”, “strateghi” di predomini e di esclusioni perseguite nel “nuovo ordine mondiale”, al cui progetto nessuna arma o conflitto é preclusa.

2) L’autorità dei sofferenti.

Che cosa può conservare nella pace il mondo anche in questi tempi di globalizzazione? Il principio basilare della uguaglianza degli uomini, – verità divenuta ipotesi esigente della politica, ma relegata nei libri scolastici o nelle liturgie celebrative dei morti in quanto loro meritano “uguale” rispetto – affonda le radici  nella visione biblica della creazione da parte di Dio. Trova però la sua traduzione morale nel principio pragmatico, non scritto da nessuna parte, ma costitutivo della relazione pacificatrice di ogni epoca: non c’è sofferenza del mondo che non ci riguarda. La nozione basilare e fondativa dell’uguaglianza delle persone e dei popoli – vero segno dei tempi per Giovanni XXIII –  rinvia al riconoscimento di una autorità che nessuno può imporre, magari invocando Dio sull’uso della propria forza, in quanto la si può comprendere solo lasciandosi incontrare: vedendo,  ascoltando e rispondendo alla autorità dei sofferenti. Tale autorità vincola tutti, prima di ogni votazione o intesa, credenti e non credenti e non può essere aggirata da nessuna cultura umana e da nessuna religione. Una simile autorità obbedita potrebbe costituire il fondamento di un ethos della pace.

3) Rimettere al centro la giustizia.

Se la riflessione morale del passato si è trovata spesso muta di fronte al male del mondo, nell’evidente contrasto tra onnipotenza di Dio e potenza distruttrice dell’uomo, occorre, nell’oggi, recuperare il senso dell’apocalittica biblica: essa «non reca l’impronta di distruzione totale tipica degli zeloti, ma si preoccupa di offrire una percezione del mondo che “svela” e “scopre” ciò che accade realmente, contro la tendenza che fa continuamente capolino in tutte le concezioni del mondo religiose e metafisiche a rendere le vittime invisibili e le loro grida non udibili» (J.B.Metz).

Di qui l’urgenza di una “mistica della giustizia”: mistica perché è una giustizia non senza volto, ma una giustizia che “cerca il volto” e conduce al “volto” dei sofferenti verso i quali tutti risultiamo debitori. Per i credenti, lì si delinea e diviene visibile, perché espressione terrena, la prossimità di Dio. “Signore quando mai ti ho incontrato? – chiede il credente nel giudizio – ogni volta che hai fatto questo al più piccolo dei mie fratelli” – sarà la sua risposta.

Da questa visione altra e alta si può assumere un ethos della pace e della giustizia, in espressioni plurali, ed una politica che sa di essere vincolata non alle strategie vincenti a qualunque costo, ma alla realtà biblica della “compassione”. Sorgerebbero percorsi di buone prassi “altre” e “ulteriori”, con orizzonti aperti, – a livello personale, comunitario, planetario – che non la mera esecuzione delle richieste del mercato o delle cosiddette “costrizioni oggettive” in tempi di globalizzazione. ☺

 

eoc

eoc