quietanza pagata
22 Febbraio 2010 Share

quietanza pagata

In tema di rapporti di tipo subordinato è necessario fare chiarezza sul tema della differenza che intercorre tra le mere quietanze e le quietanze con valore di rinuncia o transazione ai sensi dell’articolo 2113 c.c.

La distinzione tra le due tipologie di quietanze è oggetto di un attento dibattito giurisprudenziale in ragione delle importanti conseguenze che derivano dalle opposte soluzioni.

In ordine alla mera quietanza (firma della busta paga) si può sintetizzare che essa è una semplice dichiarazione di scienza con cui il lavoratore attesta la tendenziale congruità di quanto ricevuto a titolo di pagamento, senza alcuna rinuncia rispetto a diritti diversi da quelli oggetto della quietanza. Si deve, dunque, precisare che la dicitura a “saldo e stralcio”, spesso contenuta in tali dichiarazioni (peraltro nella maggior parte dei casi già predisposte in moduli dal datore di lavoro) non assume di per sé il significato di rinuncia rispetto all’accertamento del quantum dovuto (passibile, ad esempio, di errori di calcolo) o di autonomi diritti. Un tale assunto è confermato da consolidata giurisprudenza, che considera la quietanza una mera manifestazione del convincimento del lavoratore di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti (cfr. tra le tante Cass., Sez. Lav., n. 16682/07).

Per quanto attiene, invece, alle quietanze con valore di rinuncia o transazione, la prima si configura come una dichiarazione di volontà con cui il lavoratore dispone di un diritto già maturato (se non lo fosse ancora la rinuncia sarebbe nulla); la seconda presuppone una res litigiosa: essa si concreta, infatti, in un accordo attraverso il quale le parti si fanno reciproche concessioni per porre fine a un contenzioso o per prevenire una lite.

Tutto ciò dimostra che la quietanza è un istituto autonomo e distinto rispetto alla rinuncia, anche nel caso in cui contenga dichiarazioni in senso lato liberatorie. Naturalmente questo non esclude che la quietanza a saldo possa contenere anche rinunce o transazioni ex art. 2113 c.c. (impugnabili nel termine di sei mesi), a condizione, però, che il lavoratore la rilasci con consapevolezza e rappresentazione dei diritti di sua spettanza e con specifica determinazione dei titoli oggetto di rinuncia o transazione (cfr. fra le tante Cass. n. 15371/03 e n. 9407/01).

Queste ultime affermazioni sono avvalorate da un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato in materia di quietanza, i cui principi fondamentali sono stati specificati dalla Suprema Corte in diverse pronunce che affermano: “Non basta il riferimento generico a una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, effettuata nella dichiarazione di rinuncia a maggiori somme, ma occorre che il documento, per la sua formulazione letterale o sulla base di specifiche circostanze desumibili aliunde, sia interpretabile nel senso di dichiarazione consapevole, da parte del lavoratore, dei diritti in esso indicati ai quali espressamente si intende abdicare o transigere” (Cass. n. 22354/07 e n. 13731/06).

Per quanto attiene specificamente alla sottoscrizione (o meno) della busta paga è necessario fare qualche considerazione.

Come sempre è la Corte di Cassazione a indicare la via maestra (Cass. n. 21913/07) affermando, con riferimento alla sottoscrizione della busta paga, che non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza tra la retribuzione corrisposta al lavoratore e quella risultante dal prospetto paga; ciò consente al prestatore di lavoro di superare il dato documentale attraverso la prova per testimoni. La busta paga (sottoscritta), dunque, non rappresenta una prova legale e non introduce nel processo una presunzione insuperabile rispetto al suo contenuto.

In presenza di buste paga non sottoscritte, invece, il datore di lavoro non può invocare alcuna presunzione di pagamento; spetterà quindi all’imprenditore, in ossequio ai generali principi in materia di onere della prova, dimostrare il regolare adempimento della sua obbligazione retributiva, fornendo adeguata quietanza a saldo. Invero, in mancanza della principale prova scritta del pagamento, la prova testimoniale sarebbe inammissibile, in considerazione dei divieti probatori previsti per la prova dei contratti e applicabili anche alla prova del pagamento e della remissione del debito, per effetto del rinvio contenuto nell’art. 2726 c.c.

Nel proprio interesse, quindi, sarebbe opportuno che il lavoratore firmasse unicamente “per ricevuta”, visto che in questo modo non sarebbe preclusa l’azione per il pagamento delle differenze a seguito di un controllo sulla correttezza del trattamento retributivo applicato; qualora, invece, firmasse per “ricevuta e quietanza”, pur rimanendo sempre possibile l’accertamento dell’insussistenza del carattere di vera e propria rinuncia rispetto ad altre pretese o semplici errori di calcolo, l’onere della prova di ciò si sposterebbe in capo al lavoratore.

In conclusione, alla luce della giurisprudenza maggioritaria e della corretta interpretazione degli istituti coinvolti, in assenza di presupposti oggettivi che dimostrino un’effettiva volontà di disposizione del diritto, il lavoratore non ha l’onere di impugnare la dichiarazione di rinuncia contenuta nella quietanza, in quanto si tratta di un’azione giudiziale volta alla realizzazione di pretese creditorie rimaste insoddisfatte e non di fattispecie riconducile all’art. 2113 c.c. ☺

marx73@virgilio.it

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