Ribellarsi è giusto
5 Settembre 2015 Share

Ribellarsi è giusto

Ribellarsi è giusto. È una antica parola d’ordine maoista che dalla rivoluzione culturale è rimbalzata nei movimenti della fine degli anni 60, poi, sempre in quegli anni, ha dato il titolo ad un bel libro di Sartre. È un’affermazione che ben riassume lo spirito dell’epoca, erano anni nei quali “tutto e subito” sembrava possibile, nei quali il potere veniva contestato nel lontano Oriente come a casa nostra e nei quali grandi ideali e grandi illusioni hanno riempito le esistenze di più generazioni. Poi venne un lungo periodo di realismo politico e di follia, dal compromesso storico al rapimento Moro, poi una lunga stagnazione politica nella quale il pentapartito svuotò le casse dello Stato, infine la decadenza di un intero sistema politico-istituzionale sino alla crisi di tutto e di tutti dei nostri giorni. Si può discutere se cinquanta anni fa era giusto indicare “la ribellione” come orizzonte della società, se quella aspirazione di grandi movimenti di studenti e operai fosse legittima o meno: personalmente continuo a ritenere che quello fu uno dei momenti più fecondi e innovatori della nostra storia nazionale. Ciò che non si può discutere è invece la straordinaria attualità e pregnanza di quella parola d’ordine. Oggi ribellarsi non è solo giusto, ma un dovere morale prima che politico.

Ribellarsi alle grandi diseguaglianze. Oggi, molto più di ieri, il potere economico e finanziario si è concentrato nelle mani di pochi. I numeri sono impietosi, l’1% della popolazione mondiale possiede una ricchezza pari a quella che ha il 46% della popolazione mondiale. Le tre persone più ricche al mondo possiedono beni finanziari maggiori delle 48 nazioni più povere. Nei paesi OCSE, i più sviluppati e con democrazie parlamentari, la diseguaglianza dei redditi ha raggiunto il livello più alto degli ultimi cinquanta anni. In Italia le 10 persone più ricche hanno patrimoni economici e finanziari pari a cinquecentomila famiglie operaie. Il sonno della ragione produce mostri, si è detto pensando alla tragedia del nazismo, la latitanza della ragione di questi ultimi decenni ci consegna un mondo pieno di profonde ingiustizie e diseguaglianze. E diversi mostri si vedono già in circolazione.

Ribellarsi contro il mercimonio della politica e delle istituzioni. Enrico Berlinguer denunciò con grande forza nel 1981 la degenerazione morale del nostro sistema politico-istituzionale, all’inizio degli anni ‘90 la magistratura di Milano aprì il vaso di Pandora di tangentopoli. In pochi mesi l’intero sistema politico italiano, con l’eccezione del Pci che pure aveva seri inquinamenti, venne cancellato perché profondamente corrotto. La logica avrebbe fatto prevedere una nuova Primavera della politica e dei partiti, nulla di più sbagliato. La macchina della corruzione e del degrado morale delle istituzioni non si è mai fermata, sino a raggiungere livelli quasi grotteschi nelle regioni e negli enti locali, sino a riproporre connivenze e complicità con la stessa  malavita organizzata e non nella patria di Totò Riina, ma nella capitale d’Italia. Questa scissione fra l’etica pubblica e i comportamenti delittuosi degli eletti ha una premessa in quel fenomeno che in questi ultimi anni è divenuto quasi un movimento di massa e che potremmo chiamare: la transumanza degli eletti, un movimento ormai permanente da un partito all’altro, da uno schieramento politico all’altro. In Parlamento sono quasi cento i parlamentari che hanno cambiato casacca, la regione Molise su questo poco encomiabile terreno è un esempio, un laboratorio e una scuola. Per opporci a questo uso spregiudicato e personale della politica che, giorno dopo giorno, sta consumando la stessa democrazia, non basta come Savonarola girare di piazza in piazza urlando la nostra indignazione, non basta attaccare davanti ai luoghi del potere, come fece Lutero, l’elenco dei malfattori e dei cialtroni della politica: bisogna avanzare idee, proposte, progetti, riforme capaci di cambiare i meccanismi di selezione della classe politica e di sterilizzare l’uso improprio delle istituzioni e del governo.

Ribellarsi a un destino già scritto. L’Italia è su un piano inclinato, la fine ingloriosa dei partiti nati dalla resistenza, la stessa parabola discendente del sindacato, la crisi economica e lo smarrimento di antiche certezze ha aperto le porte ad un futuro grigio. Dal trasformismo, antico vizio italiano, siamo approdati all’antipolitica e al qualunquismo di massa. Dalla cultura antistatalista, regalo velenoso della chiesa di Roma, siamo precipitati nell’ individualismo più becero e nel conflitto di tutti contro tutti. Infine bollono nella pancia della società pulsioni razziste e spinte autoritarie, sempre più diffuse in Europa, alimentate dall’immigrazione e dalla gestione miserabile che di questo problema epocale si è fatto, con Berlusconi e senza Berlusconi. È vero, resistono esperienze sociali democratiche, sperimentazioni di nuove economie di qualità, legami di cooperazione e solidarietà, resiste una cultura democratica e di sinistra, ma, appunto, è una resistenza che non contagia il resto della società e non produce egemonia.

Sempre più gli uomini di buona volontà appaiono soli: da una parte la ribellione dell’uomo qualunque al quale accarezzano il pelo con gli stessi argomenti i Salvini, i Grillo, la Meloni e tanti altri, dall’altra la vecchia classe politica che senza memoria ripete vizi e pratiche del passato. Non è difficile prevedere il punto di arrivo di questa situazione: il vecchio lascerà il passo al nuovo che avanza, il nuovo aprirà le porte al peggio. Sembrerebbe un copione già scritto, ma talvolta la realtà è meno lineare, meno scontata di come sembra manifestarsi. Certo, perché qualcosa di buono possa accadere è decisivo che gli uomini di buona volontà si guardino intorno, che facciano un passo avanti, che si assumano la responsabilità di dire no a questa deriva e di dare voce ai tanti che si sono silenziosamente rassegnati al peggio. ☺

 

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