Ricordando Don felice piccirilli
10 Agosto 2018
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Ricordando Don felice piccirilli

Don Felice Piccirilli, parroco di san Giuseppe in Vasto sino al 1968, venuto a mancare il 26 maggio 1968 all’età di 55 anni, viene ora doverosamente ricordato in occasione del 50° anniversario della scomparsa. Intendo aggiungere, a quanto già noto, alcune personali considerazioni riguardanti il particolare momento storico/sociale (anni Sessanta/Settanta) entro cui cercare di inquadrare avvenimenti che lo coinvolsero in prima persona.

A 50 anni di distanza, andrebbero doverosamente rivisitati figura e meriti di don Felice. Quando egli morì, avevo 15 anni. Ne seguii con costernazione, con la trepidazione di un adolescente, gli ultimi mesi di vita, la malattia a inizio 1968, il ricovero in ospedale, il decesso. All’epoca, più che pensare a studiare, giocare in oratorio e occhieggiare le coetanee, m’intendevo poco del clima politico che si respirava in città. Sapevo poco o nulla di quel gran traffico di persone che spostava voti, più che smuovere coscienze, rispetto a tutto quanto, de relato, venni poi a sapere. In ogni caso, non appare affatto provata, come invece riferita da voci, spifferi di piazza, l’adesione esplicita di don Felice alla storica alleanza tra la lista civica “Il Faro” di Silvio Ciccarone (lista nata da una costola dell’allora Democrazia Cristiana) con il Partito Comunista Italiano, intesa politica divenuta operativa, nel governo della città, a settembre 1968.

Ero uno sprovveduto studente ginnasiale. Masticavo ogni giorno frasi di latino e greco, endecasillabi e ditirambi che, ahimè, poco aiutavano a comprendere la scena politica del momento. Né so riferire, come avrebbe fatto un cronista dell’epoca, l’esatta sequenza degli avvenimenti politico-amministrativi succedutisi a Vasto nel periodo 1966-1968. Lascio perciò ad altri, eventualmente più informati di me, il compito delicato di narrare nel dettaglio quegli accadimenti.

Ciò che ricordo di quel periodo vastese, oltre al gracchiare fastidioso degli altoparlanti che attraversavano la città per annunciare i comizi a piazza Diomede e piazza Pudente, sono i risultati delle elezioni amministrative di novembre 1967, in cui la Lista Civica Il Faro aveva conseguito 11 seggi. La Dc aveva ottenuto 14 seggi, il PCI 5 seggi. Per governare la città di Vasto occorreva una maggioranza di almeno 16 seggi. Quale alleanza era dunque possibile? O DC-Lista Faro, oppure PCI-Lista Faro, oppure DC-PCI.

In campagna elettorale la DC aveva manifestato la propria indisponibilità ad allearsi con la Lista Faro; d’altronde, l’alleanza DC-PCI non era proponibile; non restava che l’ipotesi PCI-Lista Civica Il Faro.

Quel che è certo è che, purtroppo, all’inizio dell’anno 1968 don Felice si ammalò. Pertanto, ritengo che per oggettivi motivi di salute non poté avere, se anche ci fossero stati (ci furono?), che pochi contatti “politici”: forse, qualche colloquio? Forse, qualche scambio di opinione? Poi il ricovero in ospedale; infine la morte il 26 maggio. Ciò che ricordo nitidamente è che a settembre 1968 (4 mesi dopo la scomparsa di don Felice), a corollario di questioni locali contingenti per dare governabilità alla città, il PCI vastese si alleò con la Lista Il Faro, garantendo al sindaco Ciccarone una maggioranza che durò 4 anni. Questo, sì, mi è ben chiaro.

Alla luce delle cronache di quei mesi concitati appare, a dir poco temerario, sostenere un ruolo di don Felice nella genesi di quell’inedita alleanza che tanto scalpore aveva suscitato. Personalmente, ciò di cui mi sono poi persuaso – non avendo contezza, all’epoca, di uno scenario sì articolato e conflittuale – è che don Felice si è limitato, tutt’al più, ad esprimere semplici “opinioni”, più che nette prese di posizione. Opinioni, probabilmente, “scomode” per taluni. Forse per tal motivo, per aver esternato opinioni “scomode”, egli venne immediatamente attaccato non solo da notabili e politici dell’epoca, ma da esponenti dello stesso mondo clericale.

Una serie di documenti, in parte ancora riservati, dimostrerebbero, a distanza di mezzo secolo, quanta sofferenza, quanto dolore derivarono a don Felice, in particolare nell’ultimo anno della sua esistenza terrena, dal fatto di aver esposto – questo è ciò che ho intuito – le proprie “opinioni” di cittadino. Ebbene, dal mio modesto osservatorio, ritengo che nulla vieta a un sacerdote di essere anche “cittadino”, ossia appartenente alla civitas, al contesto umano e sociale in cui vive.

Per quanto attiene la vicenda di don Felice, oggi siamo chiamati a riconoscere quanto fu sbagliata, talvolta feroce quanto ingiusta, la violenza con cui venne denigrato per aver esercitato nient’altro che il suo diritto di civis, cittadino.

È nota, al riguardo, la locuzione Civis romanus sum pronunciata da vari personaggi dell’antica Roma – incluso lo stesso san Paolo (Atti, 22,27) – per affermare i propri diritti civili, qualcuno direbbe, oggi, “costituzionali”. D’altronde, non esiste forse un articolo della Costituzione italiana (art 21) che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero …”? E chi riveste il ruolo di sacerdote non gode egli pure di tale diritto?

Il vento della Storia non potrà non offrire piena luce alla già nitida figura di quel nostro amato parroco, don Felice Piccirilli.☺

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