rivoluzione culturale
2 Febbraio 2011 Share

rivoluzione culturale

 

Che scrivere in questi giorni dell’orrore profondo: feriti uccisi morti. Nemici amici oramai scomparsi, persino la bocca carnascialesca di Ruby pretende solo solidarietà e rivoluzione al mondo, questo mondo che calpestiamo come “elefanti ottusi” (Amelia Rosselli).

Che scrivere mentre sangue e sangue viene fuori dalle parole dei pavidi, dalle parole degli uomini con schiena dritta perché nani e ballerine imparino a cambiare, perché la rivoluzione abbia un senso, un con-senso che sia la faccia del Che (mio maestro e coinquilino) mio avversario mio amante per coordinare la vita, non la consunta giornata obbligo di sempre per vivere?

Ho guardato in tutte le chiese, ho cercato il bambinello a venire, per dimenticare offese, purificarmi l’animo e scrivere qualcosa che fosse contro la minacciosa equanime ruberia dei potenti e ribalderia degli sfruttatori.

Non so scrivere nulla: eppure (lo so bene) la mia testa è piena di parole ogni giorno, le parole sono pane croccante, caramella di giuggiola, acuminata spada e tormento, fiamma per riscaldarsi-are e dare anche origine ad azioni-sollevazioni.

Il senso oggi sembra corrotto.

Poi le immagini di Amadeus sera fa e Salieri che parla della musica di Mozart nella memorabile scena fra le prime.

“Sulla pagina sembrava… niente… un inizio semplice, quasi comico. Appena un palpito, con fagotti, corni di bassetto… come lo schiudersi di un vecchio cofano. Dopodiché, a un tratto, ecco emergere un oboe… una sola nota sospesa immobile, finché un clarinetto ne prende il posto, addolcendola con una frase di una tale delizia. Quella non era la composizione di una scimmia ammaestrata… no era una musica che non avevo mai udito, espressione di tali desideri… di tali irrefrenabili desideri… mi sembrava di ascoltare la voce di Dio”.

Forse è possibile, ho avuto solo un attimo di smarrimento!

E poi mi arriva schivo in un incarto di carta colore paglia, l’indirizzo con una scrittura semplice, elegante a penna, persino corretta dal bianchetto che nessuno oggi in epoca di sms d’inutili silenzi oserebbe richiamare nelle cartolerie dell’indecenza solo chioschi di nebulizzazione di osmotici e probabili consensi, mi arriva come regalo tredicesima copia su trentadue, l’opera omnia di questi ultimi tormentati quindici o forse più anni di Roberto Roversi.

Le pagine da sfogliare: prendo il tagliacarte di mio padre e ri-sento il sapore delle pagine e l’ebbrezza di poter toccare la carta e leggo. In modo scompigliato leggo quello che in parte già conoscevo e la parola diventa tuono e tempesta e grido e finalmente indignazione e poi universo dell’umanità composta di uomini non da barbari.

Eccomi. Sono qui per scrivere che la prima rivoluzione nasce dalla cultura di uomini come questo mio amico maestro, nobile vecchio dalla dignità adamantina che travalica il secolo, i dolori, le paure, i consensi con la sua quieta e continua lotta ai bordi ai margini sempre in dissenso del potere con la convinzione “cauta” direbbe lui ma inesorabile che l’umanità rinasca. E non posso che trascrivere alcune sue parolepoesia con la speranza che la rivoluzione abbia il sapore del miele di Roberto Roversi e che noi come lui possiamo non infierire ma essere uomini di lotta contro ogni ingiustizia, contro ogni strapotere senza narcisisticamente chiedere fama e consenso ma con la consapevolezza che la passione della lotta forse avrà pochi compagni, ma avrà certamente il consenso degli onesti. Qualsiasi acqua, falda, territorio lavoro, cuore amore ci vogliano rubare noi siamo qui con le sue parole e preparare una rivoluzione di cui nessuno forse si sta accorgendo.

 E come si potrebbe nel frastuono dei molti e nell’assordante si- lenzio sui pochi che come lui vivono rivoluzioni?

 

 (parte quarta trenta miserie d’Italia)

XII

La miseria della misera Italia numero dodici

la testa in fiamme la sterpaglia

della festa dei pensieri paglia che

avvampa brucia fra braci di fumo

Si consumano notizie mescolate al ricordo

di vecchie età

l’armamentario sul carro della vita in corsa

è spazio di fresca primavera

Altrove polvere sollevata dall’auto nella strada di campagna

odora di mele mentre il merlo si allontana

stride forte a filo d’erba lungo il mare

siepi siepi siepi di oleandri abbandonati e

pini scavezzati dai venti secolari camminano a terra.

Può la morte ordire il suo acuminato massacro

ridurre in cenere il delfino

il vascello di fuoco

la sovrastante nuvola in ciclone e

travolgere la vita?

Il fervore trascinato in gorgo

l’esistente in un attimo è scomparso

giovinezza è il ricordo poi sull’occhio ottuso

del cielo interminabile di tetti

e alla fine dimenticare la tomba

dei vecchi eroi?

Quante primavere gli uomini fuggitivi

abbandonano alle giovani ali che arrivano portate dal garbino?

Si può considerare l’opportunità di non rassegnarsi

bruciare il carro del vincitore

anche le nostre bandiere.

Per favore.☺

Roberto Roversi Da “ l’Italia sepolta sotto la neve”  ed aer Bologna 2010 pag 413

 ninive@aliceposta.it

 

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