rivoluzione spirituale
24 Febbraio 2010 Share

rivoluzione spirituale

“Quando gli elefanti litigano, chi ci rimette è l’erba” (detto africano).

La crisi capitalistica dell’econo- mia e della finanza, in una globalizzazione senza regole, se non quelle imposte dagli interessi di una certa parte del mondo economico, non è giunta come un fulmine a ciel sereno, ma è il frutto maturo, sebbene amaro, di un mondo immaginato, progettato, voluto, per quanto consapevoli dei limiti e dei rischi che comportava. Il tracollo rappresenta non un errore imprevisto per difetto progettuale bensì solo un errore di prospettiva: un cammino ben congegnato ma con “la veduta corta” (T. Padoa-Schioppa). Non poteva durare a lungo; presto – in più occasioni aveva anticipato i segnali delle devastazioni possibili – avrebbe presentato il conto pesante. Neppure, a discapito, si può dire che fosse un progetto cieco senza ipotesi di protezione; aveva, invece, una propria malvagia etica di salvezza: l’etica della scialuppa di salvataggio. Dal naufragio possibile di una nave possono salvarsi, con maggiori probabilità, quanti riusciranno a salire sulle scialuppe che però non corrispondono mai alla totalità dei passeggeri della nave: è già previsto che molti rimarranno in balia delle onde; per loro i tempi di salvezza sono estremamente ridotti, per quanti rimanessero ingabbiati nella nave non c’è nessuna speranza.

            La similitudine rende a noi possibile fotografare il mondo di oggi. I pochi si salvano – sebbene qualcuno risulti colpito gravemente nei suoi beni -, alcuni lo potranno fare, ma hanno una tutela minima che permette loro di attendere alcune probabilità la liberazione dal naufragio sebbene i bagagli andranno perduti, altri – e sono i più – sopravvivono a galla per ore, altri destinati a sprofondare negli abissi.

Abbiamo avuto sulle navi ciurme guidate da capitani incompetenti accompagnati da equipaggi inadeguati alla navigazione? No, tutti erano al posto giusto e con le competenze necessarie ma, nella eventuale bufera in arrivo, si era convinti comunque della propria salvezza, perché dunque preoccuparsi?

La cooperazione tra stato e mercato nel capitalismo è la regola: il conflitto tra essi, semmai viene alla luce, rappresenta l’eccezione. Di regola le politiche dello Stato capitalista, tanto democratico che dittatoriale, vengono costruite e condotte nell’interesse e non contro l’interesse dei mercati. L’effetto principale dell’intervento dello stato è di avvallare, consentire, garantire la sicurezza e la longevità del dominio del mercato.

Questa prima “mercificazione” della società, connaturale con il capitalismo ma non correttamente governato perché le regole sono mancate oltre il confine nazionale di ogni stato, a causa della transizione dalla società “solida” dei produttori a quella “liquida” dei consumatori, ha provocato il trasferimento della fonte primaria di accumulazione capitalistica dall’industria al mercato dei consumi. Mentre prima servivano sovvenzioni statali per “produrre”, oggi occorrono sovvenzioni per consentire ai produttori di “vendere” le merci e ai consumatori di “comprare” le merci. Il credito diviene il congegno magico per assolvere a questo doppio compito. Lo Stato capitalista ultimo è chiamato a garantire la disponibilità continua del credito e la capacità continua dei consumatori di ottenerlo. Stato e mercato possono occasionalmente combattersi ma la relazione ordinaria e normale tra essi è la simbiosi. Basta frequentare un qualsiasi supermercato dove si trovano prodotti di vario tipo, con proposte diversificate già rateizzate oppure con già pronta e disponibile una adeguata proposta di finanziamento per garantire l’acquisto. Se il meccanismo rallenta, allora interviene lo stato con incentivi fiscali all’acquisto, alla rottamazione, ecc… per far ripartire l’ingranaggio del mercato.

Conseguenza ultima e terribile di questo processo politico-finanziario è una “ri-mercificazione” del lavoro. Infatti – nota Bauman ne Il capitalismo parassitario – lo Stato sociale per quanto esprimesse nobili e urgenti motivi per essere introdotto nelle società capitalistiche, non avrebbe avuto fortuna se il capitalista non si fosse accorto che era “utile” a lui che operai e “riservisti” fossero in buona forma: era un investimento potenzialmente redditizio, qualora ne avesse avuto bisogno. Oggi lo stato sociale si vede tagliare i mezzi necessari dallo Stato, perché la fonte del profitto si è spostata dallo sfruttamento della manodopera operaia allo sfruttamento del consumatore. La gente, anche povera, per rispondere alle seduzioni dei mercati consumistici, ha bisogno di denaro, non di “servizi” dello Stato sociale.

Siamo di fronte a un modello di governo non più della economia ma della vita stessa che dall’alto dei poteri al basso delle comunità poggia ormai su parametri divenuti sangue di ognuno di noi. Siamo vittime di questo sistema? Forse in modo incosciente, lo si spera, siamo protagonisti ma nella scala più bassa – per ritornare all’immagine del naufragio – in balia delle onde o rinchiusi nella nave che affonda; c’è, però, sempre la vincita ad una lotteria che potrebbe salvarci!

L’occidente deve passare per una rivoluzione spirituale. L’attuale collasso economico non è una questione di crisi finanziaria: è una crisi morale. Credo che l’occidente sia consapevole di sette grandi peccati: benessere senza lavoro, educazione senza morale; affari senza etica; piacere senza coscienza; politica senza principi; scienza senza responsabilità; società senza famiglia e ne aggiungerei un altro, fede senza sacrificio. Qual è la soluzione? Sostituire i “senza” con altrettanti “con”.  (Mustafà Ceric, Gran Muftì di Bosnia sul Sole 24 Ore del 30 agosto 2009) ☺

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