Samira, una madre
Il corridoio scavato nella notte
tra l’antica bayt e il sicomòro
(trincea di libertà tra le rovine)
era l’azzurro confine dei profughi
sull’orizzonte dei cedri
fuga dalla viltà della guerra
sentiero di vita nuova.
L’anziana madre raccolta in preghiera
nella bianca casa ridotta a brandelli
al di là della linea di fronte
fissava, straniera nel silenzio,
le mani del figlio protese
per l’ultimo saluto, tra la gente
che correva oltre la siepe
verso le distese di monti
mentre dai solchi del viso rugoso
calde lacrime carezzavano la polvere. Era la fine!
(Un mesto rituale di uomini e donne, silenti
spogliati della loro storia).
Samìra restava. Sola nel tormento
vegliava il sonno dei padri
aspettando l’infinita alba
avvolta nell’orgoglio di donna coraggio
ostaggio di una speranza sopita
gli occhi fieri, grandi
nello spavento dell’essere preda.
Intorno il vuoto e le macerie.
Il corpo oltraggiato e stanco
sostava sull’uscio della sua memoria
raccolto nei veli di seta bianca
sfiorato dal soffice vento
che muoveva i sogni di libertà.
La pietà, negli occhi languidi di Samìra
sul figlio lontano. Senza ritorno.
Senza pace quella casa oltre il confine
senza più luce. Eppure un’altra primavera.