Una farfalla, la prima di questa primavera, alita silenziosa intorno ai petali di un fiore appena schiuso. È piccola, bianca, lieve, quasi incorporea e penso alla teoria di James Loveloch, secondo cui il battito d’ali di una farfalla può far scatenare un uragano dall’altra parte del mondo. Quest’assurdo, che potrebbe anche essere vero, accresce il nostro senso di responsabilità, la percezione del peso del nostro dire e fare. Quante volte genitori o gente di scuola hanno sperimentato che un sorriso, una carezza, un incoraggiamento, un gesto di accoglienza… ha innescato una catena di interazioni, di echi, di imitazioni, mentre, al contrario, un atto di violenza, di esclusione, di rabbia, di indifferenza… ha provocato trascinamenti e comportamenti negativi!
Ognuno si porta dentro il dispiacere di occasioni perdute, di desideri frustrati; rimorsi di cose non dette o non fatte che pesano come pietre e momenti di vittoria, di pienezza, di soddisfazione per gli obiettivi raggiunti che fanno sentire leggeri come l’aria.
Gli educatori piantano semi che saranno presenti nell’anima e nella mente di generazioni di bambini che diventeranno adulti e io mi chiedo, nella mia lunga carriera professionale, che influenza ho avuto sui miei alunni: avrò dato valori, bellezza, conoscenze costruttive, modelli positivi o la mia azione educativa è stata insignificante e labile, destinata a disperdersi nel tempo?
Queste riflessioni mi interpellano e a volte mi inquietano anche se per me ormai – dopo un non facile processo di elaborazione della perdita – l’insegnamento è un capitolo chiuso. Da pensionata torno qualche volta tra i banchi di scuola à la recherche du temps perdu, ma avverto il disagio di trovarmi in un posto che non mi appartiene, di interpretare un ruolo che non è più mio; quanto ai bambini, che mi sono rimasti nel cuore, so come si adattano con facilità e gioia a persone e situazioni nuove perché loro vivono nel presente e non hanno la dimensione della nostalgia e del rimpianto.
Dunque devo uscire dal mio ghetto mentale, sforzarmi di de-sentimentalizzare il mio vissuto scolastico, allargare i miei orizzonti umani e sociali, dedicarmi, possibilmente, ad altri progetti e quando mi sentirò stanca e demotivata, attingere senso e vigore da ciò che è stato il mio mestiere, la mia passione di una vita perché ho intrecciato volti, parole, gesti, empatie ai nastri colorati del ricordo e non cadranno come acqua tra le dita aperte.☺
Una farfalla, la prima di questa primavera, alita silenziosa intorno ai petali di un fiore appena schiuso. È piccola, bianca, lieve, quasi incorporea e penso alla teoria di James Loveloch, secondo cui il battito d’ali di una farfalla può far scatenare un uragano dall’altra parte del mondo. Quest’assurdo, che potrebbe anche essere vero, accresce il nostro senso di responsabilità, la percezione del peso del nostro dire e fare. Quante volte genitori o gente di scuola hanno sperimentato che un sorriso, una carezza, un incoraggiamento, un gesto di accoglienza… ha innescato una catena di interazioni, di echi, di imitazioni, mentre, al contrario, un atto di violenza, di esclusione, di rabbia, di indifferenza… ha provocato trascinamenti e comportamenti negativi!
Ognuno si porta dentro il dispiacere di occasioni perdute, di desideri frustrati; rimorsi di cose non dette o non fatte che pesano come pietre e momenti di vittoria, di pienezza, di soddisfazione per gli obiettivi raggiunti che fanno sentire leggeri come l’aria.
Gli educatori piantano semi che saranno presenti nell’anima e nella mente di generazioni di bambini che diventeranno adulti e io mi chiedo, nella mia lunga carriera professionale, che influenza ho avuto sui miei alunni: avrò dato valori, bellezza, conoscenze costruttive, modelli positivi o la mia azione educativa è stata insignificante e labile, destinata a disperdersi nel tempo?
Queste riflessioni mi interpellano e a volte mi inquietano anche se per me ormai – dopo un non facile processo di elaborazione della perdita – l’insegnamento è un capitolo chiuso. Da pensionata torno qualche volta tra i banchi di scuola à la recherche du temps perdu, ma avverto il disagio di trovarmi in un posto che non mi appartiene, di interpretare un ruolo che non è più mio; quanto ai bambini, che mi sono rimasti nel cuore, so come si adattano con facilità e gioia a persone e situazioni nuove perché loro vivono nel presente e non hanno la dimensione della nostalgia e del rimpianto.
Dunque devo uscire dal mio ghetto mentale, sforzarmi di de-sentimentalizzare il mio vissuto scolastico, allargare i miei orizzonti umani e sociali, dedicarmi, possibilmente, ad altri progetti e quando mi sentirò stanca e demotivata, attingere senso e vigore da ciò che è stato il mio mestiere, la mia passione di una vita perché ho intrecciato volti, parole, gesti, empatie ai nastri colorati del ricordo e non cadranno come acqua tra le dita aperte.☺
Una farfalla, la prima di questa primavera, alita silenziosa intorno ai petali di un fiore appena schiuso. È piccola, bianca, lieve, quasi incorporea e penso alla teoria di James Loveloch, secondo cui il battito d’ali di una farfalla può far scatenare un uragano dall’altra parte del mondo.
Una farfalla, la prima di questa primavera, alita silenziosa intorno ai petali di un fiore appena schiuso. È piccola, bianca, lieve, quasi incorporea e penso alla teoria di James Loveloch, secondo cui il battito d’ali di una farfalla può far scatenare un uragano dall’altra parte del mondo. Quest’assurdo, che potrebbe anche essere vero, accresce il nostro senso di responsabilità, la percezione del peso del nostro dire e fare. Quante volte genitori o gente di scuola hanno sperimentato che un sorriso, una carezza, un incoraggiamento, un gesto di accoglienza… ha innescato una catena di interazioni, di echi, di imitazioni, mentre, al contrario, un atto di violenza, di esclusione, di rabbia, di indifferenza… ha provocato trascinamenti e comportamenti negativi!
Ognuno si porta dentro il dispiacere di occasioni perdute, di desideri frustrati; rimorsi di cose non dette o non fatte che pesano come pietre e momenti di vittoria, di pienezza, di soddisfazione per gli obiettivi raggiunti che fanno sentire leggeri come l’aria.
Gli educatori piantano semi che saranno presenti nell’anima e nella mente di generazioni di bambini che diventeranno adulti e io mi chiedo, nella mia lunga carriera professionale, che influenza ho avuto sui miei alunni: avrò dato valori, bellezza, conoscenze costruttive, modelli positivi o la mia azione educativa è stata insignificante e labile, destinata a disperdersi nel tempo?
Queste riflessioni mi interpellano e a volte mi inquietano anche se per me ormai – dopo un non facile processo di elaborazione della perdita – l’insegnamento è un capitolo chiuso. Da pensionata torno qualche volta tra i banchi di scuola à la recherche du temps perdu, ma avverto il disagio di trovarmi in un posto che non mi appartiene, di interpretare un ruolo che non è più mio; quanto ai bambini, che mi sono rimasti nel cuore, so come si adattano con facilità e gioia a persone e situazioni nuove perché loro vivono nel presente e non hanno la dimensione della nostalgia e del rimpianto.
Dunque devo uscire dal mio ghetto mentale, sforzarmi di de-sentimentalizzare il mio vissuto scolastico, allargare i miei orizzonti umani e sociali, dedicarmi, possibilmente, ad altri progetti e quando mi sentirò stanca e demotivata, attingere senso e vigore da ciò che è stato il mio mestiere, la mia passione di una vita perché ho intrecciato volti, parole, gesti, empatie ai nastri colorati del ricordo e non cadranno come acqua tra le dita aperte.☺
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