Senza esclusione di alcuno
Sulla base di ciò che emergeva dal Sinodo sulla famiglia e di quanto Francesco aveva detto, nel corso dei lavori si percepiva la possibilità che il documento che avrebbe racchiuso la fase sinodale potesse rappresentare un passaggio importante del Magistero di questo pontificato. E, in effetti, si tratta di un testo – Amoris Laetitia – di grande rilevanza, non solo per comprendere il disegno pastorale di Francesco, ma nella storia del Magistero cattolico nella Chiesa moderna e contemporanea. È una svolta che realizza, per la prima volta in modo così pieno, il disegno concepito da Giovanni XXIII: la chiesa madre che preferisce adoperare la medicina della misericordia nel dialogo con i suoi figli e con il mondo.
Cinque pilastri della esortazione
1) Il Magistero non deve dire tutto: questo antico criterio ecclesiale, che era stato superato con il Concilio Vaticano II, ora ritorna in voga nella pratica magisteriale. Il ministero magisteriale restituisce alla dinamica ecclesiale la “mediazione della contingenza”, senza pretendere di incasellarla una volta per tutte in una “legge generale”. 2) Misericordia e giustizia non sono sullo stesso piano, ma la misericordia è l’origine e il fine della giustizia. Questo ha conseguenze non piccole non solo sulla “gestione delle crisi” matrimoniali, ma sul modo di intendere il fondamento e il fine della famiglia. Esso non è affidato in primis ai diritti e ai doveri, ma alla esperienza di un dono. 3) Nella storia della Chiesa si intrecciano due modalità di rapporto con le crisi: una vuole escludere e l’altra vuole integrare. Fin dal Concilio di Gerusalemme – come anche nell’impatto violento delle persecuzioni che portarono molti a rinnegare la fede – la seconda ha prevalso sulla prima, fino a far discendere il senso stesso della Chiesa da questa capacità di integrazione. 4) Una profonda autocritica circa il rapporto della Chiesa con il mondo moderno diventa – indirettamente – una importante affermazione ecclesiologica: il rapporto tra Chiesa e mondo viene reimpostato non sul registro negazione/affermazione dei valori (non negoziabili) ma su quello del riconoscimento dei “segni dei tempi”. Da una logica metafisico-cognitiva e autoritaria ad una logica esperienziale-affettiva e ministeriale. 5) Ricondurre tutto all’incontro concreto con la Parola di Dio come luogo del discernimento, evitando di consegnare il giudizio al linguaggio astratto di norme generali, che diventano “pietre” e che tradiscono il volto materno della Chiesa, irrigidendolo nella figura accigliata di un giudice.
Tre nuove prospettive ecclesiali
Cambia il magistero: il rapporto tra autorità centrali e autorità periferiche risulta profondamente modificato. Il papa aveva preso a risolvere le controversie mediante una norma ecclesiale che riservava a sé la decisione. Francesco utilizza la propria autorità per investire di autorità Vescovi e presbiteri. Passa dalla logica del Motu Proprio a quella del Motu Communi.
Cambia il rapporto tra pastorale e giuridico: ad una tradizione che aveva ridotto il campo matrimoniale ad una serie di istituzioni giuridiche, quasi erodendo ogni spazio per la cura pastorale, si risponde con una azione che sta riequilibrando la via giuridica con la via pastorale. Lo spazio che si è aperto appare “abissale”, ma è, in realtà, frutto non solo della tradizione, ma anche del buon senso.
Cambia il rilievo del soggetto, della coscienza e della storia: in questo percorso di apertura, nuovo rilievo “rivelato” acquista il soggetto. Dio non è solo nella massima esteriorità della legge, ma anche nella intima interiorità della coscienza. Dio come intimior intimo meo provoca ad una riconsiderazione del rapporto tra esteriorità e interiorità, con un recupero della seconda. Potremmo dire che Francesco legge la Humanae vitae con gli occhiali della Dignitatis Humanae. Crea una nuova sintesi: Dignitatis Humanae Vitae!
Nel giudicare l’“immagine di famiglia”, dobbiamo riconoscere che per la prima volta, in modo pieno, dopo 140 anni, il magistero papale, – compiuto tutto il lungo percorso sinodale, dopo aver ascoltato, interloquito, proposto, accolto, selezionato – dice una parola sull’amore e sulla famiglia, prova ad uscire dallo stereotipo “reattivo”, che il cattolicesimo si è fatto imporre dalla storia politica d’Europa. Poteva uscire dallo stereotipo soltanto un papa non-Europeo. Soltanto il primo papa americano, soltanto il primo papa “figlio” del Concilio poteva avere la libertà e la forza di uscire dal “complesso di persecuzione” che sul matrimonio avevamo maturato da Leone XIII in poi. Il matrimonio, infatti, 140 anni fa, non significava anzitutto “amore di coppia”, ma società, generazione, educazione. E allora la contesa era: chi ha la competenza sul matrimonio? Lo Stato usurpatore o il Supremo legislatore, unico legittimo? Questa eredità era rimasta anche 50 anni dopo, quando, con Pio XI, il tema del contendere era diventato: chi ha il potere di generare? Dio, naturalmente, o l’uomo, artificialmente? E anche questo venne ad aggiungersi alla contesa precedente, fino al Vaticano II. Sulla famiglia le parole di Gaudium et Spes, per quanto ispirate ai testi precedenti, fecero epoca, ma per poco. La Humanae Vitae tornò a polarizzare la tensione, con grande effetto mediatico, ma con poca efficacia pratica. Infine arrivò Familiaris Consortio, che iniziò a riconoscere la società differenziata, accettando che la comunione ecclesiale potesse essere diversa dalla comunione sacramentale. Ma non aveva ancora gli strumenti per rispondere a questa nuova condizione: sapeva riconoscerla, ma restava in imbarazzo sulle forme concrete della risposta. Ora Francesco ha potuto riconoscere che la “famiglia naturale” non è a garanzia della competenza ecclesiale, ma forma originaria del mistero di Dio nell’uomo.
Con Amoris Laetitia siamo, oggi, all’inizio di un inizio. La legge non è più solo pedagogia, la coscienza diventa passaggio obbligato, la contingenza non è più abbandonata alla mercé di una “oggettività” tanto idealizzata quanto aggressiva. L’inizio di un inizio non è mai facile. Agli occhi di qualcuno può sempre apparire come l’inizio di una fine. Un magistero che affida al discernimento concreto la comunione ecclesiale è un magistero che riacquista forza, perché torna nell’alveo della sua originaria funzione: servire alla fede battesimale, che nel matrimonio realizza il Regno di Dio, pur con tutte le sue crisi e i suoi fallimenti. Accettare che il matrimonio possa fallire non è debolezza, ma forza del sacramento e della fede.
Uscendo dal modello esclusivamente istituzionale di lettura dell’amore, papa Francesco fa una operazione di “traduzione della tradizione”. Ma avrà bisogno di una Chiesa che si sobbarchi la responsabilità di non farsi sostituire dal superiore di turno. Spogliandosi di un potere oggettivo e oppositivo, il papa ha investito la Chiesa della autorità dello Spirito, come dono di misericordia che non esclude nessuno.
