sogno ancora
17 Aprile 2010 Share

sogno ancora

 

“Sogno che sulle rosse colline della Georgia i figli degli antichi schiavi e i figli degli schiavisti possano sedere insieme al tavolo della fratellanza. Sogno che un giorno l’Alabama sia trasformato in uno stato dove bambine e bambini neri potranno dare la mano a bambine e bambini bianchi, e camminare insieme come fratelli e sorelle”.

A parlare così in quel 28 agosto 1963 è Martin Luther King, pastore della chiesa battista, a conclusione di una imponente “marcia per la libertà” per le vie di Washington.

Abramo Lincoln, giusto cento anni prima, aveva proclamato: “Tutte le persone in stato di schiavitù saranno da questo momento e per sempre libere”, ma dalla dichiarazione di principio non vennero mai tratte tutte le conseguenze e così gli Stati Uniti si ritrovano ancora impantanati nella segregazione razziale.

Martin Luther King, nato nella periferia di Atlanta nel 1929, all’età di sei anni, dovendo frequentare la “scuola per i neri” e non potendo giocare più con i compagni bianchi percepisce che il colore della pelle fa la differenza. La discriminazione riempie la vita dei neri di tensione, la ribellione, faticosamente repressa, è sempre latente e periodicamente esplode con rabbia incontrollata: legittimare l’inferiorità dei neri è sempre più problematico.

A Montgomery, dove andrà come pastore, di fronte ad un sopruso subito da una donna nera su un autobus, riesce a incanalare la protesta in modo nonviolento con il boicottaggio degli autobus. La notizia della “resistenza nera”, che durerà fino all’abolizione della segregazione sugli autobus, fa il giro del mondo. King viene arrestato, ma deve essere rimesso in libertà perché si teme l’assalto alla prigione. Sul diario annoterà: “Io mi batto per quello che credo giusto. Ma ora ho paura. La mia gente guarda a me come a una guida  e se io mi presento a loro senza forza né coraggio, anch’essi vacilleranno”.

Attingendo forza dalla fede non arretrerà mai dal suo impegno, nonostante le continue minacce intimidatorie, i dodici arresti, la casa fattagli esplodere. Continuerà ad amare i nemici fino al giorno della tragica morte. E’ il 4 aprile 1968: un tale ben appostato preme un grilletto, un colpo sordo, King si porta la mano alla testa e cade a terra in una pozza di sangue. Alla notizia dell’assassinio esplodono rivolte in tutti i ghetti, centocinquanta città nella notte ardono come torce, il suo insegnamento sembra dimenticato, il suo sogno infranto. Ma si può uccidere il profeta, non la voce del profeta e così la strada intrapresa sarà percorsa da altri dopo di lui, proprio grazie a lui.

Al cimitero dei neri di Atlanta durante il commiato risuonano solo le parole che aveva pronunciato precedentemente in un sermone: “Se qualcuno di voi sarà qui nel giorno della mia morte, sappia che non voglio un grande funerale. E se incaricherete qualcuno di pronunciare un’orazione funebre, raccomandategli che non sia troppo lunga. Ditegli di non parlare del mio premio Nobel (per la pace 1964), perché non ha importanza; e neppure dei diplomi, delle onorificenze, delle lauree, perché non ha importanza. Dica che tentai di spendere la mia vita per vestire gli ignudi, nutrire gli affamati, che tentai di amare e di servire l’umanità”. ☺

 

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