Solo e disperato
12 Novembre 2018
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Solo e disperato

Caro amico, Gino, ho saputo per caso che sei morto. Certamente invece so che sei morto solo e disperato. Come muoiono soli e disperati tanti anziani. Ti dicevo sempre: non avere soldi a volte è una fortuna! Tu ne avevi e i tuoi figli, come altri figli di oggi, troppo indaffarati, troppo presi dal proprio lavoro non hanno il tempo e molto spesso non hanno nemmeno il desiderio di comprendere.

Vivevi fra i tuoi incubi, in un inferno che non era il diabete ma i fantasmi che tornavano di una morte assurda che ti ha sconvolto gravemente. “La puttana, scimmia negra che si è gettata dall’albero” era la tua compagna e da lì hai cominciato a pensare, nel tuo essere legalitario al massimo, che ti fossero contro le forze dell’ordine, che ti volessero accusare e incolpare. Tutto era concluso. Ma i tuoi incubi no, e dal lontano 2009 dal primo TSO che i tuoi figli hanno richiesto, hai cominciato ad avere paura anche di ogni persona o cosa. Pervicacemente rifiutavi medicine e aiuti. Pervicacemente dal profondo dell’anima chiedevi solo amore. Urlavi contro ma chiedevi amore e se ci sono riuscita io che ti ho incontrato nel 2012 su preghiera di tua sorella per portarti dell’insulina, se ci è riuscita tua sorella a venire varie volte e stando da te e anch’io anche altri ci sarebbero potuti riuscire. La forza dell’amore, il modello non canonico dell’amore padre-figli mulino bianco regolare tutto a posto (troppo facile) non faceva parte della tua vita. Mi urlasti, dalla prima volta, che ti spiavano, che laser messi accortamente ti bruciavano tutto.

Ma ero riuscita a fare amicizia con te, a passare ore anche serene. Per anni ci siamo incontrati a casa tua. Ti eri come sciolto alle mie battute sempre ironiche ma che ti scuotevano e ti portavano quasi alla normalità. Mangiavamo insalata russa, affettato e il “solito Ferrari” che compravi per fare festa. Sprizzava da tutti i pori il desiderio di parlare, comunicare, dire, spesso urlare la tua solitudine perché alla fine di questo si trattava. Eravamo riusciti a uscire, ti avevo accompagnato da MediaWorld e avevi comprato un PC. Abbiamo mangiato alla piadineria. Tua sorella ed io ti avevamo iscritto a FB, hai colloquiato per vario tempo con vecchi amici e nuovi.

Sapevo che eri malato, sapevo da come urlavi l’ingiustizia subita ed anche quelle che non dicevi che il tuo cuore era rotto, non più raggiustabile. La tua bambina ti aveva tradito, tuo figlio anche. Di lui rimanevano solo gli animali impagliati nella stanza della musica come la chiamavo io. Di lei foto che ogni volta mi riproponevi amoroso. Per fortuna, quando venivo da te, mangiavamo nel salone che aveva quadri stupendi dei quali ti facevo parlare (la signora che sembra seguirti ovunque andassi con gli occhi, un bellissimo paesaggio alla Courbet e le stampe dell’amatissimo Garibaldi e le monete, le monete che erano la tua passione).

In realtà mendicavi sempre più affetto da tutti ma soprattutto dai tuoi figli che credo tu non abbia visto da anni.

Sei sempre più diventato sospettoso, insofferente: pensavi che tutti tramassero contro di te. Mi dicevi che non volevo capire che sarebbero entrati all’improvviso, di nuovo, per un nuovo TSO. Cosi tutto sarebbe finito e tu saresti morto chiuso come in carcere e forse avevi ragione: la legge concede ai figli di chiedere per un genitore ammalato che sia rinchiuso prima con un TSO, poi in una casa di riposo che, avendo soldi, ti sei pagato bene fino alla fine.

Figli non amorosi trovano leggi e cavilli e norme e ragioni (lavoro troppo, non sta bene con la testa, sragiona, temo per la sua e altrui incolumità, voglio fargli/le pagare quello che mi ha fatto soffrire quando ero piccolo/a e nel novanta per cento dei casi ci riescono). Il caso della vecchia novantenne di Chieti, trascinata dopo mesi di ospedale fra cavilli e norme di leggi a rimballo fra figli e ospedale ne è l’ultimo esempio Oggi se girate in macchina, a piedi vedete ogni dieci passi una casa di riposo. Le più belle, l’ho già scritto, sono lontane dal centro e da ogni struttura. Invecchiare deve voler dire anche non vivere più o sentirla come una colpa.

Ma non era questo il tuo problema: tu rivendicavi affetto da figli che non ti volevano e che tu rifiutavi, minacciavi con inutili sms, di diseredare. Non voglio pensare, no, che sia stata questa minaccia a farti rinchiudere due anni fa (no troppo orribile il pensiero).

Non conosco la loro profonda ferita, il motivo per cui non venivano a trovarti e ti hanno escluso dalla loro vita.

In questi due anni di dolore, sono venuta a trovarti sempre, a portare sapone, dentifricio, piccoli profumi, regali inviati da tua sorella: pigiami, cellulare. Ma ti trovavo sempre più chiuso ostinato e fermo. Ho cominciato a trasgredire al buon senso ti ho portato una volta dei pasticcini, un’altra volta cioccolatini e da ultimo anche degli stecchi di gelato. Sapevo che la tua glicemia ne avrebbe risentito… ma la vita, la vita no! Da immobile qual eri diventato (volutamente portato a morire) mettevi in moto le mani oramai scarne e pallide e ridacchiando come un bambino compivi la malefatta di mangiare di nascosto il gelato.

Gli ultimi mesi sono stati pesantissimi per la mia vita, non ce l’ho fatta a venire. So anche che la struttura o altri ti hanno seppellito come un traditore, un ramingo senza comunicarlo alla famiglia natale e a me unico nome che comparivo nell’agenda.

Spero davvero che alla fine qualcuno abbia chiamato tua figlia e che lei abbia percorso i pochi metri per entrare nella stanza a salutarti con la foto del cane a destra (frutto forse di un teatro per pazienti) e di un nipote adolescente arrivato lì in carta in foto ma mai di persona.

Addio amico mio, Gino, ave atque vale. Per le memorie impalpabili che abbiamo vissuto.☺

 

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