son figlia di emigrante
16 Aprile 2010 Share

son figlia di emigrante

 

L’insolito e toccante allestimento del presepe esposto fino a qualche giorno fa nella chiesa di San Nicola, con Gesù Bambino costretto nella simbolica valigia di un povero migrante, ha richiamato alla mia mente lontani ricordi a cui vorrei dare di nuovo voce con un piccolo contributo personale. Si tratta di una breve testimonianza inclusa nel fascicolo di ricerca L’emigrazione dei bonefrani nel mondo, realizzato con gli alunni dell’allora classe quinta nell’anno scolastico 1997-1998, e per anni rimasta nel cassetto. L’intento, minimo, vorrebbe essere ora quello di non dimenticare la dolorosa condizione di tanti migranti, e auspicare, con le parole di Benedetto XVI, che il loro “patrimonio spirituale, morale e sociale possa essere difeso anche di fronte alla sfida dell’epoca attuale”.

Splendeva il sole quel giorno di settembre del 1960.

Sgambettavo, bimba di sei anni, al fianco di mia sorella per quel sentiero che conduceva nella nostra campagna. Mio padre, allora 38enne, arava pensoso quel fazzoletto di terra avuto in concessione (Tratturo): dove avrebbe preso il grano da seminare? Grande fu la sorpresa quando ci vide: – Che fate voi due qui? -. – È arrivata la lettera. Devi partire subito -. Si trattava della lettera che lo autorizzava ad emigrare in Germania.

E così partì. Partì alla cieca, diretto in una terra straniera dove lingua, usi, costumi, gente, tutto era diverso da noi. Non ricordo affatto la prima partenza. Ho un vago ricordo delle successive: due valigie di cartone legate con lo spago e una borsa che, una volta smessa, diventava la nostra cartella.

Al ritorno, mio padre, immancabilmente, tirava fuori da quella borsa qualche avanzo: dei panini col salame, uno ciascuno, e delle banane. Io, mio fratello e mia sorella li mangiavamo con grande avidità. Non ho mai più ritrovato quel sapore! Adesso penso che, forse, mio padre, li preparava apposta quei panini. Poi aprivamo le valigie: la cioccolata! Noi non aspettavamo altro. Di tanti tipi e di tante forme.

Col passare del tempo, divenni cosciente di tutto e ho ricordi nitidi delle sue partenze, dolorose per lui e per noi, ma che costituivano una necessità. Eccome! Permettevano di spedire a casa, regolarmente, ogni mese, il vaglia postale. Quei soldi servivano: per far studiare me e mio fratello e per far sposare mia sorella. Io mi fermai alla maturità; mio fratello si iscrisse all’Università. A mia sorella toccò la triste via dell’emigrazio- ne. Io mi sistemai in paese e subito cominciai a lavorare.

Intanto gli anni passavano. Mio padre lavorava in una industria di prodotti chimici. Era un buon lavoro per la verità, ma le sostanze chimiche, quelle sostanze puzzolenti che lui doveva maneggiare e respirare ogni giorno… Così sopraggiunse la malattia. Mio fratello, proprio a causa di quella malattia, dovette abbandonare gli studi. Mia madre, emigrata anche lei dopo il mio matrimonio, assistette papà nei primi mesi della malattia. Ma quella parola, quella parola pronunciata troppo spesso dai medici, loro due non la capivano. O fingeva, mio padre, di non capirla? Rientrarono in Italia nel novembre del ’75, senza paga e senza pensione. Tempi durissimi.

La morte sopraggiunse in una fredda giornata di gennaio del 1976 e, nonostante fosse pieno inverno, quel giorno splendeva il sole. ☺

 

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