strato di polvere di Luciana Zingaro | La Fonte TV
Passaggio d’autunno con fitte lancinanti al cuore. Eppure vivo e cammino spedita e il cric crac delle foglie sotto le suole delle scarpe mi fa compagnia, mi solletica le guance una brezza sottile e suonano per la mia gioia le campane adorate, soprattutto la volta del cielo, incantevole, mi sorride puntellata di luci per ogni dove e ogni luce è una promessa, cui voglio affidarmi.
Luminoso e lieto domani sarà il mattino. Questa vita è stupenda, sii dunque saggio, cuore. Tu sei prostrato, batti più sordo, più a rilento… Sai, ho letto che le anime sono immortali.
Anna Achmatova, tra le apostrofi al cuore che la poesia ci ha consegnato dall’inizio dei tempi quella che preferisco.
Non osavo da un po’ la fatica della scrittura perché non osavo la fatica delle idee: scrivere stanca, è sfibrante a volte, nella misura in cui costringe a pensare, a lavorare le idee, a organizzarle in un sistema di senso. Specialmente lì sta il labor limae di oraziana memoria, io credo; la confezione di parole, frasi e nessi opportuni viene per immediata conseguenza.
Mi capita nei periodi bui, di angustia esistenziale, quando le forze sembrano esaurite, di rinunciare a produrre idee e accomodarmi nell’inerzia e nell’automatismo della ricezione passiva; mi capita di chiudermi me tra me e cullarmi in seno ad una prigione di suggestioni negative e di ricordi nostalgici, sempre le stesse, sempre gli stessi. Mi arresto, allora, mente e cuore. Ma capita poi, fortunatamente mi capita, che di questa palude interiore a rischio di anossia mi stufo, perché sento in fin dei conti che non sono una monade apatica ed esclusiva e che la mia dignità, la mia ragione di elevazione, per dirla con Pascal, è anche nel pensiero mediato dal confronto col mondo e con gli uomini. Eccomi, dunque, che ho ripreso a pensare e a scrivere, con gran fatica, e a vivere, perché è bello e mi piace, costi quel che costi.
Non so ben ridire cosa mi abbia ricacciato dal mio spleen melanconico; due eventi però mi hanno scosso l’animo dal fondo, mi hanno risvegliato dolorosamente e doverosamente alla vita: il naufragio dei tanti, troppi aspiranti immigrati africani a largo di Lampedusa al principio di ottobre e il recente incontro tenutosi a Campobasso coi genitori di Stefano Cucchi, il giovane romano “misteriosamente” deceduto a Roma, dopo un trattamento preventivo in un carcere e in un ospedale dello Stato.
Due eventi disparati in apparenza, ma che hanno suscitato in me emozioni e pensieri simili.
Le decine e decine di corpi chiusi nel cellofan azzurro, stature diverse e volti, ovvero nomi e identità, vergognosamente coperti, sigillati per sempre, speranze abortite sul nascere; il dolore composto dei Signori Cucchi, il viso di lei come rarefatto dal gelo della sofferenza, quello di lui più morbido e pronto al pianto, e l’immagine solo suggerita dai signori Cucchi, ma così vivida nella mia mente del volto del figlio, il volto del figlio, irriconoscibile ai loro occhi in obitorio, tanto era straziato di lividi e rotture. Sono dovuta andare oltre la commozione estemporanea, perché non mi bastava; sono dovuta uscire fuori da me, che ancora vivo e respiro il primo pizzicorio autunnale, così saporito e stuzzicante; ho dovuto elaborare l’idea della morte ingiusta, della morte che non è esito naturale o accidente fortuito, ma che è frutto di sopruso e strategia di male; ho dovuto pensare che esistono i diritti della mia coscienza, certo, però anche i doveri della mia coscienza; ho dovuto pensare che io sono qui fortuitamente viva, perché al posto dei tanti profughi africani o di Stefano Cucchi avrei potuto esserci io – perché non?-, e sono colpevolmente viva, almeno fino a quando non avrò speso le mie energie e le mie parole, la mia presenza e il mio esempio di vita per additare e denunciare e contrastare per quanto mi è possibile lo scandalo di queste e altre storie di ingiustizia, tanto diverse e sempre uguali.
Non posso barricarmi nel recinto della mia singola vita io, il cui diritto alla vita altri prima di me e con me hanno difeso senza risparmio della vita propria.
“Sei parte in causa, non assolverti mai” mi sono andata ripetendo dopo l’incontro con i signori Cucchi, quando ho camminato un’ora a zonzo perché a casa proprio non riuscivo a stare e il cielo stellato mi pareva una meraviglia mai vista e mentre lo guardavo mi tornava in mente quel detto di Kant, che forse non ho mai capito o forse solo ora ho capito interiormente: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”.
Tra le donne della mitografia tragica greca, Antigone per me giganteggia, l’ho sempre amata, la associo nell’aspetto ad Anna Magnani, con quella dignità tanto più altera quante più sono le strettezze della vita, con quel fare spiccio a coprire un eccesso di sensibilità.
Nella omonima tragedia di Sofocle, Antigone oltraggia il decreto di Creonte, signore di Tebe, che vieta gli onori funebri al fratello di Antigone, Polinice, morto combattendo contro la patria; mossa dall’amore fraterno e convinta di compiere il suo più sacro dovere, seppellisce simbolicamente Polinice coprendolo di uno strato di polvere, quindi, accusata da Creonte, non rinnega la sua azione, anzi a fronte degli ordini di Creonte stesso si appella alla superiorità delle leggi non scritte e non mutabili, leggi né di ieri né di oggi, che vivono da sempre e afferma decisa di non voler esporre se stessa a condanna divina per timore di orgoglio di un uomo
Penso ai marinai lampedusani, secondo la Legge correi di clandestinità per non aver assistito allineati e corretti alla morte di ulteriori profughi; penso ai genitori di Cucchi, cui la Legge ha tolto un figlio e che ora si battono perché mai più accadano violenze simili, non importa che Stefano comunque non tornerà a casa. Penso che la loro polvere è sacrosanta, come quella di Antigone, che io, che tutti, dovremmo riempircene i pugni. ☺
LucianaZingaro@libero.it
Passaggio d’autunno con fitte lancinanti al cuore. Eppure vivo e cammino spedita e il cric crac delle foglie sotto le suole delle scarpe mi fa compagnia, mi solletica le guance una brezza sottile e suonano per la mia gioia le campane adorate, soprattutto la volta del cielo, incantevole, mi sorride puntellata di luci per ogni dove e ogni luce è una promessa, cui voglio affidarmi.
Luminoso e lieto domani sarà il mattino. Questa vita è stupenda, sii dunque saggio, cuore. Tu sei prostrato, batti più sordo, più a rilento… Sai, ho letto che le anime sono immortali.
Anna Achmatova, tra le apostrofi al cuore che la poesia ci ha consegnato dall’inizio dei tempi quella che preferisco.
Non osavo da un po’ la fatica della scrittura perché non osavo la fatica delle idee: scrivere stanca, è sfibrante a volte, nella misura in cui costringe a pensare, a lavorare le idee, a organizzarle in un sistema di senso. Specialmente lì sta il labor limae di oraziana memoria, io credo; la confezione di parole, frasi e nessi opportuni viene per immediata conseguenza.
Mi capita nei periodi bui, di angustia esistenziale, quando le forze sembrano esaurite, di rinunciare a produrre idee e accomodarmi nell’inerzia e nell’automatismo della ricezione passiva; mi capita di chiudermi me tra me e cullarmi in seno ad una prigione di suggestioni negative e di ricordi nostalgici, sempre le stesse, sempre gli stessi. Mi arresto, allora, mente e cuore. Ma capita poi, fortunatamente mi capita, che di questa palude interiore a rischio di anossia mi stufo, perché sento in fin dei conti che non sono una monade apatica ed esclusiva e che la mia dignità, la mia ragione di elevazione, per dirla con Pascal, è anche nel pensiero mediato dal confronto col mondo e con gli uomini. Eccomi, dunque, che ho ripreso a pensare e a scrivere, con gran fatica, e a vivere, perché è bello e mi piace, costi quel che costi.
Non so ben ridire cosa mi abbia ricacciato dal mio spleen melanconico; due eventi però mi hanno scosso l’animo dal fondo, mi hanno risvegliato dolorosamente e doverosamente alla vita: il naufragio dei tanti, troppi aspiranti immigrati africani a largo di Lampedusa al principio di ottobre e il recente incontro tenutosi a Campobasso coi genitori di Stefano Cucchi, il giovane romano “misteriosamente” deceduto a Roma, dopo un trattamento preventivo in un carcere e in un ospedale dello Stato.
Due eventi disparati in apparenza, ma che hanno suscitato in me emozioni e pensieri simili.
Le decine e decine di corpi chiusi nel cellofan azzurro, stature diverse e volti, ovvero nomi e identità, vergognosamente coperti, sigillati per sempre, speranze abortite sul nascere; il dolore composto dei Signori Cucchi, il viso di lei come rarefatto dal gelo della sofferenza, quello di lui più morbido e pronto al pianto, e l’immagine solo suggerita dai signori Cucchi, ma così vivida nella mia mente del volto del figlio, il volto del figlio, irriconoscibile ai loro occhi in obitorio, tanto era straziato di lividi e rotture. Sono dovuta andare oltre la commozione estemporanea, perché non mi bastava; sono dovuta uscire fuori da me, che ancora vivo e respiro il primo pizzicorio autunnale, così saporito e stuzzicante; ho dovuto elaborare l’idea della morte ingiusta, della morte che non è esito naturale o accidente fortuito, ma che è frutto di sopruso e strategia di male; ho dovuto pensare che esistono i diritti della mia coscienza, certo, però anche i doveri della mia coscienza; ho dovuto pensare che io sono qui fortuitamente viva, perché al posto dei tanti profughi africani o di Stefano Cucchi avrei potuto esserci io – perché non?-, e sono colpevolmente viva, almeno fino a quando non avrò speso le mie energie e le mie parole, la mia presenza e il mio esempio di vita per additare e denunciare e contrastare per quanto mi è possibile lo scandalo di queste e altre storie di ingiustizia, tanto diverse e sempre uguali.
Non posso barricarmi nel recinto della mia singola vita io, il cui diritto alla vita altri prima di me e con me hanno difeso senza risparmio della vita propria.
“Sei parte in causa, non assolverti mai” mi sono andata ripetendo dopo l’incontro con i signori Cucchi, quando ho camminato un’ora a zonzo perché a casa proprio non riuscivo a stare e il cielo stellato mi pareva una meraviglia mai vista e mentre lo guardavo mi tornava in mente quel detto di Kant, che forse non ho mai capito o forse solo ora ho capito interiormente: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”.
Tra le donne della mitografia tragica greca, Antigone per me giganteggia, l’ho sempre amata, la associo nell’aspetto ad Anna Magnani, con quella dignità tanto più altera quante più sono le strettezze della vita, con quel fare spiccio a coprire un eccesso di sensibilità.
Nella omonima tragedia di Sofocle, Antigone oltraggia il decreto di Creonte, signore di Tebe, che vieta gli onori funebri al fratello di Antigone, Polinice, morto combattendo contro la patria; mossa dall’amore fraterno e convinta di compiere il suo più sacro dovere, seppellisce simbolicamente Polinice coprendolo di uno strato di polvere, quindi, accusata da Creonte, non rinnega la sua azione, anzi a fronte degli ordini di Creonte stesso si appella alla superiorità delle leggi non scritte e non mutabili, leggi né di ieri né di oggi, che vivono da sempre e afferma decisa di non voler esporre se stessa a condanna divina per timore di orgoglio di un uomo
Penso ai marinai lampedusani, secondo la Legge correi di clandestinità per non aver assistito allineati e corretti alla morte di ulteriori profughi; penso ai genitori di Cucchi, cui la Legge ha tolto un figlio e che ora si battono perché mai più accadano violenze simili, non importa che Stefano comunque non tornerà a casa. Penso che la loro polvere è sacrosanta, come quella di Antigone, che io, che tutti, dovremmo riempircene i pugni. ☺
Passaggio d’autunno con fitte lancinanti al cuore. Eppure vivo e cammino spedita e il cric crac delle foglie sotto le suole delle scarpe mi fa compagnia, mi solletica le guance una brezza sottile e suonano per la mia gioia le campane adorate, soprattutto la volta del cielo, incantevole, mi sorride puntellata di luci per ogni dove e ogni luce è una promessa, cui voglio affidarmi.
Luminoso e lieto domani sarà il mattino. Questa vita è stupenda, sii dunque saggio, cuore. Tu sei prostrato, batti più sordo, più a rilento… Sai, ho letto che le anime sono immortali.
Anna Achmatova, tra le apostrofi al cuore che la poesia ci ha consegnato dall’inizio dei tempi quella che preferisco.
Non osavo da un po’ la fatica della scrittura perché non osavo la fatica delle idee: scrivere stanca, è sfibrante a volte, nella misura in cui costringe a pensare, a lavorare le idee, a organizzarle in un sistema di senso. Specialmente lì sta il labor limae di oraziana memoria, io credo; la confezione di parole, frasi e nessi opportuni viene per immediata conseguenza.
Mi capita nei periodi bui, di angustia esistenziale, quando le forze sembrano esaurite, di rinunciare a produrre idee e accomodarmi nell’inerzia e nell’automatismo della ricezione passiva; mi capita di chiudermi me tra me e cullarmi in seno ad una prigione di suggestioni negative e di ricordi nostalgici, sempre le stesse, sempre gli stessi. Mi arresto, allora, mente e cuore. Ma capita poi, fortunatamente mi capita, che di questa palude interiore a rischio di anossia mi stufo, perché sento in fin dei conti che non sono una monade apatica ed esclusiva e che la mia dignità, la mia ragione di elevazione, per dirla con Pascal, è anche nel pensiero mediato dal confronto col mondo e con gli uomini. Eccomi, dunque, che ho ripreso a pensare e a scrivere, con gran fatica, e a vivere, perché è bello e mi piace, costi quel che costi.
Non so ben ridire cosa mi abbia ricacciato dal mio spleen melanconico; due eventi però mi hanno scosso l’animo dal fondo, mi hanno risvegliato dolorosamente e doverosamente alla vita: il naufragio dei tanti, troppi aspiranti immigrati africani a largo di Lampedusa al principio di ottobre e il recente incontro tenutosi a Campobasso coi genitori di Stefano Cucchi, il giovane romano “misteriosamente” deceduto a Roma, dopo un trattamento preventivo in un carcere e in un ospedale dello Stato.
Due eventi disparati in apparenza, ma che hanno suscitato in me emozioni e pensieri simili.
Le decine e decine di corpi chiusi nel cellofan azzurro, stature diverse e volti, ovvero nomi e identità, vergognosamente coperti, sigillati per sempre, speranze abortite sul nascere; il dolore composto dei Signori Cucchi, il viso di lei come rarefatto dal gelo della sofferenza, quello di lui più morbido e pronto al pianto, e l’immagine solo suggerita dai signori Cucchi, ma così vivida nella mia mente del volto del figlio, il volto del figlio, irriconoscibile ai loro occhi in obitorio, tanto era straziato di lividi e rotture. Sono dovuta andare oltre la commozione estemporanea, perché non mi bastava; sono dovuta uscire fuori da me, che ancora vivo e respiro il primo pizzicorio autunnale, così saporito e stuzzicante; ho dovuto elaborare l’idea della morte ingiusta, della morte che non è esito naturale o accidente fortuito, ma che è frutto di sopruso e strategia di male; ho dovuto pensare che esistono i diritti della mia coscienza, certo, però anche i doveri della mia coscienza; ho dovuto pensare che io sono qui fortuitamente viva, perché al posto dei tanti profughi africani o di Stefano Cucchi avrei potuto esserci io – perché non?-, e sono colpevolmente viva, almeno fino a quando non avrò speso le mie energie e le mie parole, la mia presenza e il mio esempio di vita per additare e denunciare e contrastare per quanto mi è possibile lo scandalo di queste e altre storie di ingiustizia, tanto diverse e sempre uguali.
Non posso barricarmi nel recinto della mia singola vita io, il cui diritto alla vita altri prima di me e con me hanno difeso senza risparmio della vita propria.
“Sei parte in causa, non assolverti mai” mi sono andata ripetendo dopo l’incontro con i signori Cucchi, quando ho camminato un’ora a zonzo perché a casa proprio non riuscivo a stare e il cielo stellato mi pareva una meraviglia mai vista e mentre lo guardavo mi tornava in mente quel detto di Kant, che forse non ho mai capito o forse solo ora ho capito interiormente: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”.
Tra le donne della mitografia tragica greca, Antigone per me giganteggia, l’ho sempre amata, la associo nell’aspetto ad Anna Magnani, con quella dignità tanto più altera quante più sono le strettezze della vita, con quel fare spiccio a coprire un eccesso di sensibilità.
Nella omonima tragedia di Sofocle, Antigone oltraggia il decreto di Creonte, signore di Tebe, che vieta gli onori funebri al fratello di Antigone, Polinice, morto combattendo contro la patria; mossa dall’amore fraterno e convinta di compiere il suo più sacro dovere, seppellisce simbolicamente Polinice coprendolo di uno strato di polvere, quindi, accusata da Creonte, non rinnega la sua azione, anzi a fronte degli ordini di Creonte stesso si appella alla superiorità delle leggi non scritte e non mutabili, leggi né di ieri né di oggi, che vivono da sempre e afferma decisa di non voler esporre se stessa a condanna divina per timore di orgoglio di un uomo
Penso ai marinai lampedusani, secondo la Legge correi di clandestinità per non aver assistito allineati e corretti alla morte di ulteriori profughi; penso ai genitori di Cucchi, cui la Legge ha tolto un figlio e che ora si battono perché mai più accadano violenze simili, non importa che Stefano comunque non tornerà a casa. Penso che la loro polvere è sacrosanta, come quella di Antigone, che io, che tutti, dovremmo riempircene i pugni. ☺
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