sull’abiezione
22 Aprile 2010 Share

sull’abiezione

 

La volpe del Piccolo Principe ci parla di bellezza e di legami, ci parla di inaddomesticatezza che si vende solo alla bellezza dell’Altro cioè alla forza dell’amore. Questo non è una pappetta che viene commissionata quando nasciamo e che ci  portiamo dietro per abitudine e pigrizia, con le alucce dell’angelo custode, ma è una rigorosa etica, tutta umana, che trasforma le nostre azioni quotidiane, qualunque esse siano e qualunque relazione privata e/o pubblica abbiamo, in un  legame di bellezza.

Partiamo dunque dalla consapevolezza che la bellezza è la costante attenzione che si ha dell’altro, chiunque esso sia: attenzione ai suoi piccoli segni, ai suoi grandi segni; l’attenzione che pongo all’altro/a perché possa essere felice mi rende quindi eticamente inattaccabile dalle quotidiane guerre che la globalizzazione, certamente  la nostra civiltà globalizzata, impone perché spinge all’abiezione o ai poteri dell’orrore.

 Segnali ne abbiamo avuti da tempo: si stava corrompendo la grammatica tutta umana e punteggiata da quotidiane sortite di bellezza dell’anima; e posso nel mio piccolo segnalare di qualche volta che da sola o in compagnia  ho richiamato (nel senso di dare voce) perché  penso che il mio compito di scrittrice o artista è quello di vedere la realtà e trasfigurarla in segnali di fumo o di fuoco, per altri.

Segnali di fuoco ce ne sono stati nel ‘90. Con “Sette giorni d’indignazione”(1)  … scoppiava la guerra Iraq-Iran e prima di quella erano stati rapiti ostaggi ed io scrivevo nella presentazione della rassegna: “… parlino pure i ministri  della guerra della necessità di inviare i tornado, di difendere la pace in pericolo… No. No alla guerra: no alla pace che viviamo. Se vivere di pace oggi significa essere oltraggiati da un consenso di regime, se vivere in pace anima le discussioni per giungere alle divisioni, se vivere in pace obbliga il più debole ad essere sempre più debole, se vivere in pace soffoca la forza di parola e di braccia a chi è troppo solo per urlare la propria protesta: di che pace viviamo? Rifiutiamo qualsiasi forma di distruzione dell’umanità e quindi ogni tipo di guerra: ma rifiutiamo anche ogni omogeneizzazione di un’umanità che vanifica l’identità. E non desideriamo solo  opporre rifiuti: l’indignazione non é flebile o forte lamentazione: è azione di lotta, di mobile guerriglia contro la scacchiera marmorizzata degli eserciti del POTERE”.

  Successivamente la rassegna “Cuore di tenebra”(2)  analizzava con le varie arti la parte buia, inconscia e inconsapevolmente ambigua di noi. “ C’è in ognuno di noi una zona d’ombra, una darkness inconsapevole/consapevole, un indicibile che provoca inquietudine perché la sua esistenza è nel mondo dell’ambiguo/segreto, non come menzogna ma come qualcosa che c’è ed è riconoscibile a patto che si abbia una chiave di lettura particolare … La tenebra non esiste al di fuori della luce è interna ad essa”.

Inizialmente il perturbante che ci assilla, che fa paura, che ci sgomenta è sempre l’Altro: il diverso, il malato, il pazzo, l’extracomunitario, lo straniero, l’altra lingua, l’altra religione, l’altro colore di pelle.

Successivamente riaffiora nell’io che la parte perturbante, quella che ci spaventa, è proprio dentro di noi, nel nostro ordine, nella nostra casetta mulino bianco tutta ordinata, nelle civiltà oramai ben consolidate su norme e poteri di orribile acquiescenza al dio denaro dove la monetizzazione non è altro che mercanteggiare sulla verità della bellezza e dell’amore. Quello che ci inquieta, che ci fa male, si elimina. Di conseguenza è molto più facile destabilizzare con il diverso che non con il sorriso di bianco splendore, di bianca 

domanda, di quieta risposta da casetta di porcellana di signora per bene, tutto stirato e nulla da dire.

I segnali li abbiamo avuti anche nel grande cinema con i zombie di Romero… cannibali mai morti mangiano una società perbenista e fattucchiera di un benessere che nasce dal malessere di tre quarti del mondo.

Ce ne ha parlato in modo più psicanalitico il regista David Lynch Twin Piks che rappresentava non gli incubi di uno strano regista ma la minacciosa incombente paurosa presenza del perturbante in casa, sotto la porta, nella porta di casa, dentro.

Scrive Julia Kristeva in “I poteri dell’orrore: saggio sull’abiezione “in questo senso solo il godimento fa esistere l’abietto come tale. Non lo si conosce, non lo si desidera, se ne gode. E come nel godimento in cui il cosiddetto soggetto del desiderio esplode con lo specchio infranto in cui l’io cede la propria immagine per mirarsi nell’Altro, l’abietto non ha nulla di oggettivo. E’ semplicemente una frontiera, un repellente dono che l’Altro, divenuto alter ego, lascia cadere perché l’io non scompaia in lui ma trovi in questa sublime alienazione un’esistenza scaduta. Un godimento in cui il soggetto affonda ma in cui l’Altro, in compenso, gli impedisce di sprofondare rendendoglielo ripugnante”.

Inutile dire quanto corrispondano, a volere seguire il saggio di Kristeva, queste parole agli atti della nostra vita: in politica, nell’economia, nel quotidiano vivere, nei sentimenti , nel sesso.

La colpa, la crudeltà è dell’Altro. L’orrore è sublimato nell’Altro, l’abiezione è dell’Altro. Anche nei nostri atti quotidiani il brutto, il fetido, il colpevole è nell’Altro.

Ciò inquieta, ci fa paura, e la paura ci sottopone alla continua rappresentazione di un Diverso. La macchina dell’es e dell’io può diventare una macchina politica o sociologica o economica o sessuale ma il gioco è sempre lo stesso. Con l’aggravante che non è nemmeno più la grande città con i suoi angoli bui e sconosciuti ad essere il Male; sappiamo bene che la strage di Erba è dentro le piccole mura di un piccolo numero ristretto di persone che vivevano vicine vicine in una piccola città.

 Non a caso sono usciti in questi ultimi tre anni due romanzi(3): uno che tocca proprio la zona della Brianza, l’altro che riguarda proprio il nostro Molise. Ambedue gli scrittori vedono nella piccola cellula sociale, nel mondo della piccola città o regione  la profonda ferita da cui  il male. E il dolore.

Ritorniamo al cuore di tenebra di Conrad: Kurtz prima di morire sussurra “ah l’orrore l’orrore”! E Kurtz per noi è oramai consacrato nella testa calva di Marlon Brando in Apocalipse Now: china la testa e sussurra l’orrore sulla civiltà bianca. Il motivo conradiano della tenebra che riluce e del bianco che ha la tenebra ormai ci appartiene. E’ in ogni angolo della casa, in ogni cassetto ben ordinato della nostra civiltà consunta ma educata e benpensante. Giù la maschera! L’orrore e l’abiezione siamo noi! ☺

 

 (1)   Teatro del Guerriero “ sette giorni di indignazione 22-28 ottobre1990poesia musica teatro video arti plastiche fotografia fumetto collegamento 24 ore su 24 con radio città del capo.

 (2)   Teatro del Guerriero “ Cuore di tenebra” rassegna internazionale di teatro , poesia musica fotografia , istallazioni multimediali.

(3)   Niccolò Ammaniti “ Come Dio comanda”

 In un paesaggio di desolanti periferie, dove si susseguono centri commerciali, capannoni e baracche, dove gli uomini e le donne trascorrono il tempo a imbottirsi di fiction o soap opera confrontando la realtà con le vicende ideali dei personaggi televisivi, dove l’ignoranza e l’indigenza sfociano nella violenza, si snodano le esistenze di Rino e Cristiano Zena: il loro complicato e tragico rapporto di padre e figlio è il fulcro del romanzo

“Così ti ricordi di me” di Nicola Gardini(Sironi editore, Milano, 2003, euro 11,50),

Storia di un bambino solo, in un Molise duro, primordiale, non nostalgico e non consolatorio Un bambino. Un paese: Ponte Nero, che cela un’assonanza con Montenero, sulla costa molisana.. Siamo negli anni ’70: il boom economico è terminato e la modernità si mescola, a volte semplicemente si giustappone, alla chiusura arcaica

Il realismo di Gardini – che usa un registro quotidiano, semplice, frutto della contaminazione fra l’italiano, l’angloamericano e un dialetto di grande comunicatività, riprodotto così come “suona”, senza applicazioni filologiche maniacali – fa piazza pulita della retorica “paesana” di matrice neorealista e immerge il lettore nella carne e nel sangue di una fiaba a tratti nera. Senza buonismo. Senza prospettive consolatorie e miti sulla solidarietà e la coralità meridionale, ma anche senza moralismi e commenti.

 

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