Sulle tracce degli internazionalisti (II)
6 Aprile 2025
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Sulle tracce degli internazionalisti (II)

Siamo in undici a partire, il primo giorno; pochi, secondo le aspettative. In quel tempo fu il Farina, il delatore di giustizia, a decimare le fila e vanificare le attese; oggi, più banalmente, sono state le previste avversità atmosferiche a far disertare il camminamento. Ma il cielo è con noi, lo sento. Nella notte scorsa la neve era caduta abbondante sul nostro ricovero e sul Matese; ma qui, a San Lupo, ci accoglie un cielo appena velato, che ci farà poi compagnia per tutta la giornata, fino all’arrivo all’incrocio delle strade provenienti da Pietraroia – Bocca della Selva – Sepino.
Una lapide, posta il 5 aprile 1998 dall’amministrazione comunale di San Lupo, indica il portone d’ingresso alla taverna, e cita: “Da questo luogo, il 4 aprile 1877, mossero gli anarchici del gruppo di Cafiero e Malatesta, divisando un moto insurrezionale di libertà per le genti del meridione d’Italia, dunque un sogno di riscatto rimasto senza compimento”. La bandiera, che è mossa dalla leggera brezza, e la fascia rossa, che cinge Aldo-Errico, il “comandante” di giornata, sono i simboli più evidenti che ci portano all’avvenimento.
Ci allontaniamo dal paese scendendo verso il ponte sul torrente Janare (le streghe, nel dialetto locale). Prendiamo sulla destra che mette, poco più avanti, in un sentiero che si presenta subito irto. A dritta abbiamo il monte Croce (q. 800), di fronte ci attende il monte Ciesco (q. 900); sulla sinistra vediamo le montagne che dominano Guardia Sanframondi (BN), fra cui emerge il Toppo Capomandro, che lasciamo presto. Il torrente Janare emerge dalla stretta e si fa sentire nella gola sottostante. La bandiera si affloscia. – Il vento è basso. – dice il Maestro – Si riprenderà quando passeremo le pendici del monte. 
Le prime schermaglie
San Lupo sparisce e ricompare più volte, risalendo i tornanti. La stradina è tagliata da rivoli, che incanalano le acque provenienti dal monte. La vegetazione cambia con il variare dell’altitudine. Un cane ci accompagna; si chiama Woody, come Allen. Il suo padrone è un simpaticissimo francese, ormai napoletano a tutti gli effetti. La strada si fa sempre più ripida; si suda già, e siamo ancora alle pendici del monte Croce. Le ripe sul torrente Janare, con le zone d’ombra degli anfratti, danno l’illusione della presenza di caverne; forse ci sono davvero, verosimilmente erano nascondigli di briganti che, appena dopo l’unità d’Italia, si sentivano i legittimi padroni di queste terre. Dietro, nella valle, ormai lontano, si scorge San Lorenzo Maggiore. La cresta della montagna che si para innanzi sembra dare più forza al profilo delle cime in lontananza.
Cominciano le prime schermaglie sull’identificazione del “percorso storico”. C’è chi pensa, ansimando e arrancando sulle asperità, che gl’Internazionalisti non avessero San Lupo come obiettivo immediato, altrimenti avrebbero dimorato altrove, per esempio a San Gregorio Matese (CE); qualcun altro osserva che la verità sia nell’esatto contrario, affermando che Letino e Gallo fossero stati considerati come punto d’arrivo solo in un secondo momento, quando gli eventi avevano fatto crollare ogni indugio. Prevale la tesi che gran parte del Sannio beneventano avrebbe dovuto essere interessato dai Moti.
Nel mio piccolo, non avendo forze di polizia alle calcagna, ho tutto il tempo di guardarmi intorno e d’osservare: margherite e viole sul sentiero, mandorli in fiore; peccato che non c’è tempo per raccogliere asparagi, che si protendono seminascosti dai rovi. Entriamo in un sentiero più piccolo e gli arbusti ci stringono minacciosi. Siamo costretti a camminare in fila indiana. Non si comunica più. Il cane fa avanti e indietro e schizza tra le gambe: sembra divertirsi. Ci avviciniamo, dopo grande fatica, percorrendo la mulattiera da San Lupo, a Serra La Giumenta (q. 840). Monte Croce è superato. Dietro, ci si arrampica a testa bassa: i compagni d’avventura sembrano fraticelli oranti. Si fa forza sui bastoni per andare avanti.
Il sentiero ora sparisce, il cammino è piatto; piccole rocce affiorano da vaste macchie d’erba. La bandiera si agita che è una meraviglia. La fatica è tanta e, guardando gli altri, mi chiedo perché ci avventuriamo in simili prove: si lascia la casa comoda, il tranquillo weekend, per buttarsi a capofitto, come bambini, nella ricerca di un vuoto da colmare che viene dal passato. Ma ognuno di noi è cosciente che qui non si fa la storia, magari la si riassapora, con uno spirito diverso, e la si racconta, a chi non ha la voglia o la fortuna di essere qui, con un cuore che palpita davvero, anche se in larga parte per la fatica.
Con una punta d’orgoglio, o di follia, potrei avvertire il respiro di Carlo Cafiero e di Errico Malatesta, o le urla di Domenico Ceccarelli e di Pietro Cesare, o rivivere i timori di Francesco Ginnasi, o sentire le bestemmie di Alamiro Bianchi, il sarto di Pescia, o osservare gli entusiasmi estetici di Angelo Lazzari, il litografo di Perugina; e lì, calato su un masso, potrei vedere Sante Celoni, lo scalpellino di Imola, mentre lo accarezza e racconta a Ugo Conti, il macellaio suo compaesano, della bottega che ha lasciato e delle sculture che ha creato. Potrei vederli e sentire tutti, se solo lo volessi; basta prendere il coraggio a due mani e fare un salto nell’oblio.☺

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