tempo d’ulivo
17 Aprile 2010 Share

tempo d’ulivo

 

“Bello avere da dire una cosa sola

e non sapere bene quale

un po’ come sentirsi uguale a una rosa

che già nel seme sta nella sua posa.”

Pomeriggio bruno di inizio novembre, ho da poco letto questa breve poesia di Silvia Bre: mi ha incantato, la ripenso. In apice al testo della poesia una citazione in inglese:

“Come in to my garden

I would like my roses to see you”.

(siglato R.S: non so chi sia, se qualcuno di voi lo sa, di corsa e di grazia me lo dica).

Anche la citazione mi affascina, medito anche quella. Me lo vado rifacendo a mente il concerto verbale della Bre, minuto ma compiutamente bello, e così agevole da mandare a memoria. Mi piace gongolarmici nei ritmi delle poesie care appresi a memoria, amo immedesimarmi nel cadenzato ritorno di versi, suoni e accenti e cesure famigliari, specie quando ho bisogno di una compagnia monocorde.

Stesso pomeriggio, più tardi, il memento di Don Antonio, via sms: “la Fonte aspetta il tuo rivolo”. Ovvero, che abbisogna del mio articolo per “La Fonte”.

Dimentica, e spiazzata. E’un periodo di tale secca emotiva e intellettuale, fatico a pensare e sentire di mio, per me: cosa e come dovrei dire ad altri? Di seguito, i dieci minuti di “non voglio pensarci ora né oggi”, con cui per solito rispondo ai problemi più urgenti, a tutta prima almeno e tranne rincuorarmi con la calma e con l’agio.

Ultimo, il soccorso della poesia appena imparata a memoria:“Bello avere da dire una cosa sola e non sapere bene quale / un po’ come sentirsi uguale a una rosa che già nel seme sta nella sua posa”. Una due e tre, e di nuovo un due tre. Torna da solo alla mente il canto. E proprio quella voce esigua e silenziosa mi offre una terapia contro il male buio dell’anima che spesso mi fa disperare di tutto e di me, che mi inaridisce cuore e ragione, che mi persuade che non posso scrivere né parlare, perché non ho nulla da dire. Al recitativo taciturno della poesia si innescano labirintiadi ariostesche di su di giù di qua e di là tra piane abissi slarghi del pensiero: possibile – mi chiedo – non avere una cosa da dire, anche una sola, perché una cosa sola, nemmeno a saper bene quale, sarebbe addirittura bello? Avere nulla da dire, a tirar le somme, sarebbe quanto essere nulla ed essere nulla è inconciliabile anche per te, Luciana. E gira e rigira e gratta e scova.

La raccolta delle olive

Una cosa da dire la trovo e ce l’ho, l’abbiamo tutti qualcosa da dire anche quando tutto sembra detto e tutto il resto inutile e scontato da dirsi; magari è che in quei momenti la cosa da dire ce l’abbiamo, ma non sappiamo quale sia: garanzia che sarà bella la cosa o bello dirla. Speriamo e grazie Silvia Bre.

La mia “cosa” stavolta non è un ex-libris né un’inaudita novità; trattasi del breve resoconto di un’esperienza banale per tanto è comune qui in Molise, condivisa o condivisibile da chissà quanti di voi in futuro, mettiamo il prossimo anno, se il numero presente de “La Fonte” vedrà le olive già nel frantoio: parlo delle raccolta delle olive, infatti.

La raccolta delle olive ha costituito da sempre un “a parte” nel mio convulso rapporto con la campagna. Voglio dire, la campagna come idillio la contemplo veramente; poi, però, la sua nudità priva di rumore, la sua quiete priva di orpelli, la sua solitudine only nature mettono a dura prova le mie labili forze, psichiche e fisiche in compagnia. Tempo due ore e in genere devo scappare. Così immagino fosse per Orazio: una sua celeberrima satira, quella del contraddittorio tra il topo di campagna e il topo di città, era tutto un elogio della vita di campagna, salubre, silenziosa, ottimale per ritrovare il sé, tuttavia alla prova dei fatti lui, Orazio, da Mecenate e da Roma a quanto pare faticava ad allontanarsi (del resto, sarà un caso che proprio Orazio dopo Lucrezio e prima di Seneca abbia così efficacemente descritto la nera compagna, l’atra comes, l’angoscia, che ti opprime e se fuggi ti insegue, pure in campagna e tanto più? Seneca, al solito più prosastico e condensato, sentenzierà che in culpa est animus, qui se non effugit unquam: hai noi!)

Dicevo, la raccolta delle olive è il momento in cui i miei rapporti con la campagna si distendono: ne esco soddisfatta, serena, a volte stanca, ma sempre quasi felice.

Non è solo questione di ricordi, di quella patina di buono e dolce che avvolge la mente quando riproponiamo, periodico, un rito che ha attraversato la nostra vita fin da piccoli e tentiamo di riprodurlo nel suo magico incanto ad oltranza, se anche mancano energie e fiducia. Ovvio, la memoria, ludica mediatrice delle realtà passate, gioca pur sempre il suo ruolo illusorio, e ne dirò; ma dovrà esserci dell’altro, se ho amato quel lavoro fin da piccola, allora che sarebbe dovuto risultarmi noiosa incombenza familiare e ben prima che dei ricordi nostalgici potessi aver idea o bisogno.

Credo che il fascino della raccolta delle ulive risulti da una bilanciata commistione di elementi: la stagione dell’anno e l’ambiente del lavoro, il collega necessario del lavoro – la pianta dell’ulivo -, i ritmi e i gesti che di tale lavoro scandiscono la vicenda.

La raccolta delle olive è appena conclusa o è lì lì, ora che vi parlo. Siamo a metà autunno, il clima e il paesaggio della campagna hanno qualcosa di fatato: l’aria è frizzante e, mentre pizzica le narici, sprigiona a ondate un inaspettato tepore; i colori sono screziati e vigorosi, pur nel comune marrone bruno di sottofondo che sfilaccia l’ocra e il verde marcio e il rosso vinaccia che tramano di sé bosco, sottobosco, campagna; il cielo tanto più è terso e puro quanto più lo cogliamo a contrasto col castano della terra; di là dall’oliveto, una natura varia e confusa di piante e arbusti e ghiande e frutti, discreti però e mimetizzati, mai sgargianti; diffuso intorno un profumo insieme mite e acre: ti senti vivo nel corpo e meditabondo.

L’ulivo

L’architettura degli oliveti potrebbe consigliare tanti giovani urbanisti: i “piedi” d’ulivo, abbastanza vicini tra loro da suggerire l’idea di un collettivo di forze, di un’intima affinità, non si soffocano reciprocamente, non travalicano l’un altro: tutti gli uni dagli altri alla giusta distanza – cito 

il titolo di un film che da ultimo ho apprezzato -, quella che rende la comunicazione pulita, condivisione, mai prevaricazione né all’opposto solitudine.

E l’ulivo poi, il collega di lavoro – ci tengo a precisare, non l’oggetto -, che offre i suoi frutti preziosi: una pianta modesta all’apparenza e piena tuttavia di luce, maestosa eppure umile, giovane e vecchia insieme, con quella chioma argentea di fresche foglioline e quel tronco solido ma non monolitico, radicato quanto più è contorto, come la vita di noi tutti, tanto più radicata e tanto più vita quanto più si annoda in contorsioni e di tali gangli va irrobustendosi.

Simbolo di pace e fecondità l’olivo, dal tempo antico. Nella Genesi, Noè, all’arrestarsi del diluvio, manda una colomba in esplorazione e la vede tornare con  nel becco un ramoscello d’olivo, segno del riemergere delle terre fertili e ospitali, del perdono divino insomma; secondo la mitologia greca, nella disputa tra Poseidone e Atena per l’eponimato della città sorta sul sito più importante dell’Attica, Zeus decide che la città porterà il nome di quel dio che saprà darle il dono migliore: Poseidone allora percuote la sabbia del mare con il suo tridente d’oro ed ecco apparire un cavallo bianco; Atena sale sulla collina della città, tocca la terra con la sua lancia, e la collina si ammanta di alberi dalle foglie d’argento, gli ulivi; a questo punto Zeus, compiaciuto, sentenzia la vittoria della figlia Atena: “la città sarà chiamata Atene: tu donasti agli uomini l’olivo, e con esso tu hai donato luce e alimento ed un eterno simbolo di pace”.

I ritmi della raccolta dell’ulivo, i gesti che l’accompagnano, contribuiscono anch’essi a crearne la magia: sono ritmi e gesti all’insegna di una lentezza laboriosa, attraversati dalla riflessione, mai automatizzati da divenire alienanti. Parlo certo di una raccolta un po’ all’antica, ma è quella che possiamo gustare qui in Molise, dove pullulano i piccoli poderi con poche piante ciascuno, di modo che la furia energica dei rastrelli elettrici nel più dei casi non necessita: a mano, ramo dopo ramo, con in grembo il sacco di iuta cucito in casa da riempire e svuotare nel sacco grosso; ogni raccoglitore, dal mattino fino a che non abbuia, a tu per tu con la pianta; due raccoglitori, tre, intorno alla stessa pianta, non di più: rade, quindi, ed essenziali le parole, che non vuol dire darsi alla metafisica, piuttosto ritrovarla nella semplicità delle battute secche, nelle cesure di silenzio, negli apprezzamenti rapidi, nei racconti brevi che vengono da lontano o da ieri l’altro, all’insegna del riso o del tragico, a seconda degli umori del momento. E il cibo, così gustoso perché frugale: scurisce presto in autunno, bisogna lavorare, non si può indugiare in banchetti; eppure, quel pane e formaggio consumato rapidamente alletta più che un cibo di lusso, meglio se accompagnato da un goccio di vino rosso, quel tanto che basta per sferzare le vene intorpidite dalla lunga stazione intorno all’albero e per entrare in sintonia con l’aria pungente.

Concludo. La memoria, dicevo gioca bene le sue carte, così anche quest’anno la mia raccolta si è affollata di sensazioni antiche e dolcissime, di presenze famigliari, perdute nei corpi e vive nei miei ricordi. Uno ve ne porgo. Lo zio Luigi, fascista persuaso ma uomo di modi garbati e miti, ci aiutava sempre nella raccolta delle ulive; il suo lavoro puntuale e taciturno era per noi essenziale. Un anno – facevo l’università – io e lui, i più leggeri, ci arrampicammo su su fin ai rami più esterni di un albero particolarmente arduo da sfoltire: lavoravamo vicini, un po’spaventati all’idea di un imminente capitombolo; a un certo punto, vedendomi affaticata dalla tensione di braccia e gambe, zio Luigi, lui tanto discreto e silenzioso, specie coi giovani, esclamò: “Forza Luciana, stiamo arrivando ad Addis Abeba”. Io, un moto di stizza dapprima: meditavo, chissà, di rispondergli con l’animosità che la consapevolezza e la partigianeria politica suscitano nei ventenni – e meno male -; poi però, lo guardai, vidi solo lo zio gentiluomo, gli sorrisi, gli chiesi: “Mi racconti?”.

Su un albero di ulivo ho visto come in un film-documentario un brano della sciagurata campagna di Etiopia. ☺

LucianaZingaro@libero.it

 

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