Può succedere, talvolta, che una foto sbiadita, recuperata tra libri dimenticati, finisca per acquistare un valore straordinario, finisca per racchiudere il potere miracoloso di ridare vita a ciò che sembrava sepolto per sempre. Dettagli celati tra le pieghe del tempo ritrovano nuova fragranza ed una diversa attualità.
Rivivere entusiasmi innocenti, sensazioni depurate dal filtro della memoria è un po’ rinascere, è allontanare i fantasmi incombenti originati dalla sensazione che la vita ci sfugge di mano (tempus fugit). E, anche se per brevi istanti, volentieri dimentichiamo gli acciacchi legati all’età per tornare, nel ricordo, i monelli di ieri, i Giovanni-senza-paura ancora ignari dei trabocchetti dell’età adulta.
Alcuni coetanei hanno fatto carriera. Altri no. Ma quando li incontro, e ci scambiamo poche frasi occasionali, dimentico chi essi siano oggi, rivedo ancora quelli che eravamo. I giochi comuni dell’età scolare, fatti di piccole cose (non esistevano play-station né telefonini), figurine di carta, biglie di vetro, biciclette sgangherate…
Quando il ricco ed il povero indossavano entrambi pantaloni corti comprati al mercato o fatti in casa, non “firmati”, ostentando diffusamente lividi ed ematomi su ginocchia perennemente sbucciate in corse inesauste dietro palloni quasi sempre ovalizzati fino allo sfinimento, sballottati da piedi vivaci in campetti ritagliati nelle radure della prima periferia tra gli ultimi ulivi rimasti. Poveri ulivi sacrificali, in breve tempo annientati dallo sfacelo urbanistico degli anni Ottanta e Novanta.
Corse inesauste dietro palloni scoloriti, calciati tra gli arbusti dietro le case e nell’esiguo cortile di uno scalcinato Oratorio. Voluto, con l’amore che solo le grandi anime sanno emanare, da un uomo, un prete che negli anni Sessanta, anche grazie a quel cortile, salvò dalla strada, nelle annesse stanzette ove s’impartivano lezioni di catechismo ridotto all’essenziale, alieno da schizofrenie pseudoteologiche, un’intera generazione, la mia generazione.
Si chiamava Don Felice Piccirilli, aveva il sorriso aperto delle persone buone, un Don Bosco di provincia senza la pretesa di volerlo essere. Noi, i ragazzi di Don Felice, gli dobbiamo molto.
Forse, tra qualche anno si riparlerà di lui, della sua “Domus pacis” (nome significativo per un Paese, all’epoca, non ancora sgombro dai calcinacci dell’ultimo conflitto). Giacché, in un’epoca, come quella odierna, orribilmente deprivata di valori, anzi, al contrario, densa di persone mediocri ed opportuniste, riportare alla memoria la figura di uno che ha dato tanto, con umiltà, senza porsi sotto i riflettori, contento di farlo solo perché aveva un senso (se uno nasce educatore lo fa e basta, non cerca la gloria della prima pagina) ci potrebbe aiutare, al di là della retorica delle celebrazioni ufficiali, a non perdere il filo della nostra storia.
All’epoca, ignari adolescenti, non potevamo sapere che, negli stessi anni, su fronti differenti e con rilievi di cui al momento non si comprendeva la portata, altre persone illuminate, preti e laici, andavano seminando, su terreni diversi, semi fertili che qualche anno dopo avrebbero prodotto nelle coscienze frutti “socialmente utili”. Mi riferisco a Carlo Carretto, Giuseppe Dossetti, don Lorenzo Milani. Ed altri.
Auspico di potere ancora incontrare, quando possibile, qualcuno di quei coetanei. Quei “ragazzi di don Felice” insieme a cui ho anche pedalato, in sella ad antiquate biciclette. Per riprovare il gusto delle cose buone, che resistono alla fugacità delle mode e delle stagioni. Per parlare del più e del meno, davanti al vinello cordiale, davanti all’olio non contaminato che qualche onesto contadino saprà ancora offrirci, per domandarci come rimanere integri, come trasmettere alle “generazioni future” i valori duraturi di sempre; come non intossicare la gioventù di altre forme di droghe mentali e falsamente spirituali (veri inganni, più pericolosi delle droghe che avvelenano il sangue …). Come farne degli uomini. Non solo dei cloni. Uomini “liberi” e “pensanti”.
Le domande difficili di sempre. Ogni volta nuove. Ogni volta atroci nella loro complessità. Domande a cui, comunque, non possiamo sottrarci. A cui tenteremo di rispondere, ciascuno a modo suo, nel mentre ripensiamo a lui, don Felice, al suo sorriso buono, al suo dare tanto e non chiedere nulla; ai suoi modi sbrigativi e, solo in apparenza, rudi; a quel cortile affollato di voci urlanti; a quei palloni rotolanti, logorati da calci ripetuti all’infinito sino all’estrema consunzione, sino ad afflosciarsi asfittici in un angolo del campo da gioco; alle nostre ginocchia sbucciate fino a sanguinare. Ad una generazione ancora capace di generosità, ancora capace di “amicizia”.
Un momento storico importante, quegli anni. Un periodo di transizione straordinario. Il Sessantotto bussava alle porte. E – ripensandolo col giusto distacco – si può pacatamente affermare che portò anche cose buone, non solo ombre e nebbie. Portò nuove speranze, insieme a nuovi scenari. A noi, ai “ragazzi di Don Felice”, il compito esaltante e arduo di tenere vivo, di non disperdere, quel tesoro di memorie e di valori.
Testimonianza di Paolo De Stefanis, depositata nel 1992 presso l’ Archivio Diaristico Nazionale fondato da Saverio Tutino in Pieve Santo Stefano (Ar)J
Può succedere, talvolta, che una foto sbiadita, recuperata tra libri dimenticati, finisca per acquistare un valore straordinario, finisca per racchiudere il potere miracoloso di ridare vita a ciò che sembrava sepolto per sempre. Dettagli celati tra le pieghe del tempo ritrovano nuova fragranza ed una diversa attualità.
Rivivere entusiasmi innocenti, sensazioni depurate dal filtro della memoria è un po’ rinascere, è allontanare i fantasmi incombenti originati dalla sensazione che la vita ci sfugge di mano (tempus fugit). E, anche se per brevi istanti, volentieri dimentichiamo gli acciacchi legati all’età per tornare, nel ricordo, i monelli di ieri, i Giovanni-senza-paura ancora ignari dei trabocchetti dell’età adulta.
Alcuni coetanei hanno fatto carriera. Altri no. Ma quando li incontro, e ci scambiamo poche frasi occasionali, dimentico chi essi siano oggi, rivedo ancora quelli che eravamo. I giochi comuni dell’età scolare, fatti di piccole cose (non esistevano play-station né telefonini), figurine di carta, biglie di vetro, biciclette sgangherate…
Quando il ricco ed il povero indossavano entrambi pantaloni corti comprati al mercato o fatti in casa, non “firmati”, ostentando diffusamente lividi ed ematomi su ginocchia perennemente sbucciate in corse inesauste dietro palloni quasi sempre ovalizzati fino allo sfinimento, sballottati da piedi vivaci in campetti ritagliati nelle radure della prima periferia tra gli ultimi ulivi rimasti. Poveri ulivi sacrificali, in breve tempo annientati dallo sfacelo urbanistico degli anni Ottanta e Novanta.
Corse inesauste dietro palloni scoloriti, calciati tra gli arbusti dietro le case e nell’esiguo cortile di uno scalcinato Oratorio. Voluto, con l’amore che solo le grandi anime sanno emanare, da un uomo, un prete che negli anni Sessanta, anche grazie a quel cortile, salvò dalla strada, nelle annesse stanzette ove s’impartivano lezioni di catechismo ridotto all’essenziale, alieno da schizofrenie pseudoteologiche, un’intera generazione, la mia generazione.
Si chiamava Don Felice Piccirilli, aveva il sorriso aperto delle persone buone, un Don Bosco di provincia senza la pretesa di volerlo essere. Noi, i ragazzi di Don Felice, gli dobbiamo molto.
Forse, tra qualche anno si riparlerà di lui, della sua “Domus pacis” (nome significativo per un Paese, all’epoca, non ancora sgombro dai calcinacci dell’ultimo conflitto). Giacché, in un’epoca, come quella odierna, orribilmente deprivata di valori, anzi, al contrario, densa di persone mediocri ed opportuniste, riportare alla memoria la figura di uno che ha dato tanto, con umiltà, senza porsi sotto i riflettori, contento di farlo solo perché aveva un senso (se uno nasce educatore lo fa e basta, non cerca la gloria della prima pagina) ci potrebbe aiutare, al di là della retorica delle celebrazioni ufficiali, a non perdere il filo della nostra storia.
All’epoca, ignari adolescenti, non potevamo sapere che, negli stessi anni, su fronti differenti e con rilievi di cui al momento non si comprendeva la portata, altre persone illuminate, preti e laici, andavano seminando, su terreni diversi, semi fertili che qualche anno dopo avrebbero prodotto nelle coscienze frutti “socialmente utili”. Mi riferisco a Carlo Carretto, Giuseppe Dossetti, don Lorenzo Milani. Ed altri.
Auspico di potere ancora incontrare, quando possibile, qualcuno di quei coetanei. Quei “ragazzi di don Felice” insieme a cui ho anche pedalato, in sella ad antiquate biciclette. Per riprovare il gusto delle cose buone, che resistono alla fugacità delle mode e delle stagioni. Per parlare del più e del meno, davanti al vinello cordiale, davanti all’olio non contaminato che qualche onesto contadino saprà ancora offrirci, per domandarci come rimanere integri, come trasmettere alle “generazioni future” i valori duraturi di sempre; come non intossicare la gioventù di altre forme di droghe mentali e falsamente spirituali (veri inganni, più pericolosi delle droghe che avvelenano il sangue …). Come farne degli uomini. Non solo dei cloni. Uomini “liberi” e “pensanti”.
Le domande difficili di sempre. Ogni volta nuove. Ogni volta atroci nella loro complessità. Domande a cui, comunque, non possiamo sottrarci. A cui tenteremo di rispondere, ciascuno a modo suo, nel mentre ripensiamo a lui, don Felice, al suo sorriso buono, al suo dare tanto e non chiedere nulla; ai suoi modi sbrigativi e, solo in apparenza, rudi; a quel cortile affollato di voci urlanti; a quei palloni rotolanti, logorati da calci ripetuti all’infinito sino all’estrema consunzione, sino ad afflosciarsi asfittici in un angolo del campo da gioco; alle nostre ginocchia sbucciate fino a sanguinare. Ad una generazione ancora capace di generosità, ancora capace di “amicizia”.
Un momento storico importante, quegli anni. Un periodo di transizione straordinario. Il Sessantotto bussava alle porte. E – ripensandolo col giusto distacco – si può pacatamente affermare che portò anche cose buone, non solo ombre e nebbie. Portò nuove speranze, insieme a nuovi scenari. A noi, ai “ragazzi di Don Felice”, il compito esaltante e arduo di tenere vivo, di non disperdere, quel tesoro di memorie e di valori.
Testimonianza di Paolo De Stefanis, depositata nel 1992 presso l’ Archivio Diaristico Nazionale fondato da Saverio Tutino in Pieve Santo Stefano (Ar)J
Don Felice Piccirilli, aveva il sorriso aperto delle persone buone, un Don Bosco di provincia senza la pretesa di volerlo essere. Noi, i ragazzi di Don Felice, gli dobbiamo molto. Un momento storico importante, quegli anni. Un periodo di transizione straordinario. Il Sessantotto bussava alle porte e portò nuove speranze, insieme a nuovi scenari. Memoria di un'esperienza profonda che potrebbe aiutare a non perdere il filo della nostra storia.
Può succedere, talvolta, che una foto sbiadita, recuperata tra libri dimenticati, finisca per acquistare un valore straordinario, finisca per racchiudere il potere miracoloso di ridare vita a ciò che sembrava sepolto per sempre. Dettagli celati tra le pieghe del tempo ritrovano nuova fragranza ed una diversa attualità.
Rivivere entusiasmi innocenti, sensazioni depurate dal filtro della memoria è un po’ rinascere, è allontanare i fantasmi incombenti originati dalla sensazione che la vita ci sfugge di mano (tempus fugit). E, anche se per brevi istanti, volentieri dimentichiamo gli acciacchi legati all’età per tornare, nel ricordo, i monelli di ieri, i Giovanni-senza-paura ancora ignari dei trabocchetti dell’età adulta.
Alcuni coetanei hanno fatto carriera. Altri no. Ma quando li incontro, e ci scambiamo poche frasi occasionali, dimentico chi essi siano oggi, rivedo ancora quelli che eravamo. I giochi comuni dell’età scolare, fatti di piccole cose (non esistevano play-station né telefonini), figurine di carta, biglie di vetro, biciclette sgangherate…
Quando il ricco ed il povero indossavano entrambi pantaloni corti comprati al mercato o fatti in casa, non “firmati”, ostentando diffusamente lividi ed ematomi su ginocchia perennemente sbucciate in corse inesauste dietro palloni quasi sempre ovalizzati fino allo sfinimento, sballottati da piedi vivaci in campetti ritagliati nelle radure della prima periferia tra gli ultimi ulivi rimasti. Poveri ulivi sacrificali, in breve tempo annientati dallo sfacelo urbanistico degli anni Ottanta e Novanta.
Corse inesauste dietro palloni scoloriti, calciati tra gli arbusti dietro le case e nell’esiguo cortile di uno scalcinato Oratorio. Voluto, con l’amore che solo le grandi anime sanno emanare, da un uomo, un prete che negli anni Sessanta, anche grazie a quel cortile, salvò dalla strada, nelle annesse stanzette ove s’impartivano lezioni di catechismo ridotto all’essenziale, alieno da schizofrenie pseudoteologiche, un’intera generazione, la mia generazione.
Si chiamava Don Felice Piccirilli, aveva il sorriso aperto delle persone buone, un Don Bosco di provincia senza la pretesa di volerlo essere. Noi, i ragazzi di Don Felice, gli dobbiamo molto.
Forse, tra qualche anno si riparlerà di lui, della sua “Domus pacis” (nome significativo per un Paese, all’epoca, non ancora sgombro dai calcinacci dell’ultimo conflitto). Giacché, in un’epoca, come quella odierna, orribilmente deprivata di valori, anzi, al contrario, densa di persone mediocri ed opportuniste, riportare alla memoria la figura di uno che ha dato tanto, con umiltà, senza porsi sotto i riflettori, contento di farlo solo perché aveva un senso (se uno nasce educatore lo fa e basta, non cerca la gloria della prima pagina) ci potrebbe aiutare, al di là della retorica delle celebrazioni ufficiali, a non perdere il filo della nostra storia.
All’epoca, ignari adolescenti, non potevamo sapere che, negli stessi anni, su fronti differenti e con rilievi di cui al momento non si comprendeva la portata, altre persone illuminate, preti e laici, andavano seminando, su terreni diversi, semi fertili che qualche anno dopo avrebbero prodotto nelle coscienze frutti “socialmente utili”. Mi riferisco a Carlo Carretto, Giuseppe Dossetti, don Lorenzo Milani. Ed altri.
Auspico di potere ancora incontrare, quando possibile, qualcuno di quei coetanei. Quei “ragazzi di don Felice” insieme a cui ho anche pedalato, in sella ad antiquate biciclette. Per riprovare il gusto delle cose buone, che resistono alla fugacità delle mode e delle stagioni. Per parlare del più e del meno, davanti al vinello cordiale, davanti all’olio non contaminato che qualche onesto contadino saprà ancora offrirci, per domandarci come rimanere integri, come trasmettere alle “generazioni future” i valori duraturi di sempre; come non intossicare la gioventù di altre forme di droghe mentali e falsamente spirituali (veri inganni, più pericolosi delle droghe che avvelenano il sangue …). Come farne degli uomini. Non solo dei cloni. Uomini “liberi” e “pensanti”.
Le domande difficili di sempre. Ogni volta nuove. Ogni volta atroci nella loro complessità. Domande a cui, comunque, non possiamo sottrarci. A cui tenteremo di rispondere, ciascuno a modo suo, nel mentre ripensiamo a lui, don Felice, al suo sorriso buono, al suo dare tanto e non chiedere nulla; ai suoi modi sbrigativi e, solo in apparenza, rudi; a quel cortile affollato di voci urlanti; a quei palloni rotolanti, logorati da calci ripetuti all’infinito sino all’estrema consunzione, sino ad afflosciarsi asfittici in un angolo del campo da gioco; alle nostre ginocchia sbucciate fino a sanguinare. Ad una generazione ancora capace di generosità, ancora capace di “amicizia”.
Un momento storico importante, quegli anni. Un periodo di transizione straordinario. Il Sessantotto bussava alle porte. E – ripensandolo col giusto distacco – si può pacatamente affermare che portò anche cose buone, non solo ombre e nebbie. Portò nuove speranze, insieme a nuovi scenari. A noi, ai “ragazzi di Don Felice”, il compito esaltante e arduo di tenere vivo, di non disperdere, quel tesoro di memorie e di valori.
Testimonianza di Paolo De Stefanis, depositata nel 1992 presso l’ Archivio Diaristico Nazionale fondato da Saverio Tutino in Pieve Santo Stefano (Ar)J
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