Un dialogo spezzato
24 Settembre 2018
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Un dialogo spezzato

Dalla metà del secolo scorso i due principali elementi del processo di territorializzazione – la città e la campagna – non dialogano più, o lo fanno in modo alterato, al di fuori di una visione circolare e integrata. Si è rotto il circolo virtuoso dell’agricoltura e dell’allevamento che a lungo aveva messo in relazione l’urbano e il rurale, in primo luogo dal punto di vista alimentare e energetico. L’abbandono degli spazi rurali, il nuovo urbanesimo iniziato nel secondo dopoguerra e ancora crescente a livello globale e la conseguente cementificazione, che apparentemente sembrano fenomeni opposti, hanno determinato in modo convergente una progressiva riduzione della superficie agricola e pastorale, stravolgendo gli assetti territoriali e paesaggistici tramite rinaturalizzazione spontanea (frutto dell’abbandono) e artificializzazione dei suoli (invasione di funzioni improprie). Ciò ha insidiato l’organizzazione del territorio, l’eterogeneità ambientale e il mosaico paesaggistico, la biodiversità e la funzionalità degli ecosistemi in maniera irreversibile, aumentando la superficie improduttiva ed erodendo anche la capacità di produrre cibo con la sottrazione all’agricoltura dei terreni migliori. Un ulteriore fattore di aggravamento è dato dalla velocità dei processi di cambiamento, ben diverso dal lento modellarsi e stratificarsi del paesaggio ad opera di generazioni di contadini e allevatori, singoli proprietari e comunità.

La relazione fra uomo e ambiente non è solo una questione di oggi, ma nel mondo attuale questa relazione è degenerata, complice anche la pressione demografica sulle risorse naturali. A partire dal Trattato sull’aria, le acque, i luoghi di Ippocrate questo rapporto ha attraversato la storia. La stessa agricoltura è stata uno dei primi strumenti di modellazione dello spazio, che Giacomo Leopardi sintetizzava poeticamente nel suo Elogio degli uccelli: “…una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente”. Si è venuto creando in tal modo un paesaggio che lo stesso Leopardi definiva una “cosa artificiata”, che non contempla l’abbandono, se non al prezzo di degenerazioni, derive e disastri territoriali.

Il nostro territorio è diventato più vulnerabile. Ci sembra che piova di più, che le alluvioni e gli incendi siano più numerosi, i terremoti più violenti, le siccità più prolungate e le frane più frequenti.

In realtà sono i danni ad essere sempre maggiori, è il rischio ad aumentare perché abbiamo reso il territorio più pieno e più fragile.

Si è affermato, dall’età moderna in poi, un crescente dominio dell’uomo sulla natura. Ma la natura non è mai stata una realtà passiva e inerte; essa ha interagito, accompagnato o contrastato le trasformazioni che su di essa si operavano, è stata una protagonista attiva della vita economica e sociale di ogni territorio. E ogni tanto si prende le sue vendette. Come ci ricorda Piero Bevilacqua, solo se si riconosce alla natura questo ruolo attivo si può riconsegnare l’economia alla sua reale dimensione, che secoli di teoria economica hanno cancellato e hanno rimosso. Marx ci ricordava che nello sforzo di cambiare la natura l’uomo se ne ritrovava a sua volta modificato. Nel canalizzare il corso dei fiumi, nel manipolare l’acqua a scopi irrigui, nel rivestire di alberi le colline, nel risanare un territorio infestato, gli uomini sono stati spinti ad adattarsi ai luoghi, costretti a plasmare in relazione ad essi la loro stessa organizzazione sociale.

I dati drammatici sul consumo di suolo, che pongono l’Italia in posizione critica anche nei confronti degli altri Paesi europei, indicano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole nella campagna, la perdita di un confine identitario che permetteva il riconoscimento reciproco. Ora, chi è restato nei propri ambienti non li riconosce più, né è capace di trasmettere alle nuove generazioni la memoria dei luoghi, ma al massimo la malinconia, quando non l’angoscia o lo smarrimento, nell’omologazione di paesaggi tutti uguali e quasi sempre senza i connotati della bellezza e dell’armonia. Si tratta di un fenomeno che ci spinge anche a chiederci quanto cibo in meno è stato prodotto a causa della diminuzione della superficie coltivata.

L’ipotesi è che siano ormai necessarie nuove relazioni tra le diverse componenti territoriali, e in particolare tra urbano e rurale, non in senso gerarchico ma funzionale, che partano dal cibo, dal tempo libero, dal paesaggio, dagli stili di vita: in una parola la progettazione di un nuovo circolo virtuoso città-campagna che faccia da base a nuovi ed effettivi sistemi economico-territoriali integrati.

Anche i disastri, le calamità, gli sconvolgimenti dovuti a fattori naturali come il clima o la tettonica diventano elementi generatori di storia e di società: tempeste e siccità, variazioni climatiche, alluvioni, terremoti ed eruzioni sono altrettanti capitoli della storia naturale che si caricano di un “immaginario ecologico”. Ad essi si aggiungono i disastri causati dall’uomo, dall’imprudenza delle sue grandi opere (dighe, ponti, urbanizzazione selvaggia, insediamenti industriali e commerciali, parcheggi sotterranei…). Non si può dare la colpa alla natura cattiva. È evidente che oggi è il territorio a non tenere, ad essere più esposto ai rischi, reso più vulnerabile da uno sviluppo poco attento alle questioni ambientali e da progetti dissennati. Di conseguenza occorre rafforzare le politiche pubbliche di governo del territorio, ispirate al principio di cautela, destinandovi più risorse e chiamando anche i soggetti privati e l’intera collettività a una maggiore cooperazione nella difesa dell’ambiente.☺

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