Per quanto creda che la vita sia una faccia mutante che si diverte a sorridere spesso a qualcuno, mostrandosi più rigida a qualcun altro, sono certa che le circostanze esterne in cui siamo incontrovertibilmente gettati non bastino, da sole, a determinare l’espressione di quella faccia. La sfida delle difficoltà, la ricerca delle soluzioni migliori e della forza necessaria sono elementi che accomunano i percorsi di tutti gli uomini, dando loro la possibilità di esercitare la propria libertà individuale. A guardare bene, poi, quelle che vengono considerate come circostanze sfavorevoli non lo sono mai in assoluto, bensì lo possono essere per taluni, mentre per altri possono risultare innocue o addirittura vantaggiose. Un’apparente triste e fredda tempesta di pioggia si rivela, invece, benefica per il contadino.
È a seguito di queste considerazioni che non riesco ad accettare che il destino di tossicodipendenza che ha segnato il mio cammino fin qui, dipenda solo dal contesto svantaggioso che, peraltro, riconosco di aver vissuto.
La mia voce è il suono di una tempesta che imperversa da anni, una voce che intende raccontarvi di una ragazza e della sua dannazione. Una bora travolse la mia infanzia e fu pioggia che si mescolò alle lacrime che troppo spesso non mi furono asciugate. Il pianto non fu ascoltato e il mio disagio crebbe fino a diventare un livido su un braccio appena quattordicenne. La sostanza mi fece sembrare immune a tutto quello, mi diede l’impressione che quella pioggia non mi bagnasse, che mi scivolasse addosso, così come ogni altra cosa della mia vita.
Eppure per quanto la sostanza potesse sembrare alleviante per i miei disagi, il suo scorrere nelle mie vene e il mio sentirmi immortale avevano, invece, la reale essenza della mediocrità. Fu solo quando mi chiesero per la prima volta chi fossi che mi resi conto di non saperlo e non lo sapevo in quanto in realtà non ero. Nei panni del dipendente mi dilettavo in astuzia, audacia e coraggio, doti che incanalavo ogni giorno nella ricerca di sostanza, nella voglia di svanire continuando ad esistere. Tutto questo mi costava passioni, sentimenti e vocazioni che, giorno dopo giorno, lentamente soffocavano. In me, però, da qualche parte si conservava uno spiraglio, nel profondo del mio io restava intatto un briciolo di aspirazione fatto di amore per la vita, mentre dormiva sepolto il mio principio di salvezza. Qualcuno fu capace di captarlo e iniziò a guidarmi, facendo leva sulla mia parte sana.
Erano i miei sedici anni a vedermi bussare alla porta di un centro di recupero per tossicodipendenti. Quel giorno, la mia famiglia scaricava i miei bagagli assieme a tutte le sue responsabilità, fuggendo da quella che per loro doveva essere considerata solo come il prodotto di brutti ricordi.
Quella porta varcata non si chiuse alle mie spalle, perché il cammino interiore che da lì intrapresi mi portò tante volte a dover fare ritorno nel maltempo passato, in un continuo su e giù per scorgere, fra la nebbia dei miei ricordi, le radici del mio presente. Ricostruivo un puzzle di violenza e squallore, un’odissea che mi aveva cresciuta, un clima burrascoso in cui non era insolito aspettarsi le quattro stagioni in un giorno solo. Eppure, per quanto oggi mi sembri più facile ricollegare i miei disagi a quel clima familiare, non riesco a cancellare il mio senso di colpa. Penso a quei miei coetanei che giocavano con me, i quali sono cresciuti forti, nonostante nutriti dalla prostituzione materna, o violati da un abuso paterno o lasciati semplicemente da soli ad affrontare il proprio destino. Forse il mio malessere nasce proprio dalle colpe che in continuazione addebito alla mia persona, colpe che rimandano alla scelta della dipendenza e non ad una predestinazione ad essa. Sento una forma di angosciante biasimo per non essermi adeguata e protetta dalle tempeste del mio passato, tempeste analoghe a quelle di altri miei compagni che, invece, hanno saputo sfruttarle come un trampolino di lancio in una vita divorata, amata, e combattuta con impegno ed oggi inorgogliscono nel vedersi reduci vittoriosi di ardue imprese.
Il mio malessere si contorce al parto di un’inquietudine che può assumere diversi spessori senza mai cessare e che ancora oggi, a ventuno anni, mi fa oscillare tra il determinismo e la libertà individuale. È qui che abita la madre di tutte le mie domande, quella che mi chiede se il mio presente sia stato il frutto di una deliberata scelta personale oppure una tragica vittima delle circostanze. ☺
coopilnoce@libero.it
Per quanto creda che la vita sia una faccia mutante che si diverte a sorridere spesso a qualcuno, mostrandosi più rigida a qualcun altro, sono certa che le circostanze esterne in cui siamo incontrovertibilmente gettati non bastino, da sole, a determinare l’espressione di quella faccia. La sfida delle difficoltà, la ricerca delle soluzioni migliori e della forza necessaria sono elementi che accomunano i percorsi di tutti gli uomini, dando loro la possibilità di esercitare la propria libertà individuale. A guardare bene, poi, quelle che vengono considerate come circostanze sfavorevoli non lo sono mai in assoluto, bensì lo possono essere per taluni, mentre per altri possono risultare innocue o addirittura vantaggiose. Un’apparente triste e fredda tempesta di pioggia si rivela, invece, benefica per il contadino.
È a seguito di queste considerazioni che non riesco ad accettare che il destino di tossicodipendenza che ha segnato il mio cammino fin qui, dipenda solo dal contesto svantaggioso che, peraltro, riconosco di aver vissuto.
La mia voce è il suono di una tempesta che imperversa da anni, una voce che intende raccontarvi di una ragazza e della sua dannazione. Una bora travolse la mia infanzia e fu pioggia che si mescolò alle lacrime che troppo spesso non mi furono asciugate. Il pianto non fu ascoltato e il mio disagio crebbe fino a diventare un livido su un braccio appena quattordicenne. La sostanza mi fece sembrare immune a tutto quello, mi diede l’impressione che quella pioggia non mi bagnasse, che mi scivolasse addosso, così come ogni altra cosa della mia vita.
Eppure per quanto la sostanza potesse sembrare alleviante per i miei disagi, il suo scorrere nelle mie vene e il mio sentirmi immortale avevano, invece, la reale essenza della mediocrità. Fu solo quando mi chiesero per la prima volta chi fossi che mi resi conto di non saperlo e non lo sapevo in quanto in realtà non ero. Nei panni del dipendente mi dilettavo in astuzia, audacia e coraggio, doti che incanalavo ogni giorno nella ricerca di sostanza, nella voglia di svanire continuando ad esistere. Tutto questo mi costava passioni, sentimenti e vocazioni che, giorno dopo giorno, lentamente soffocavano. In me, però, da qualche parte si conservava uno spiraglio, nel profondo del mio io restava intatto un briciolo di aspirazione fatto di amore per la vita, mentre dormiva sepolto il mio principio di salvezza. Qualcuno fu capace di captarlo e iniziò a guidarmi, facendo leva sulla mia parte sana.
Erano i miei sedici anni a vedermi bussare alla porta di un centro di recupero per tossicodipendenti. Quel giorno, la mia famiglia scaricava i miei bagagli assieme a tutte le sue responsabilità, fuggendo da quella che per loro doveva essere considerata solo come il prodotto di brutti ricordi.
Quella porta varcata non si chiuse alle mie spalle, perché il cammino interiore che da lì intrapresi mi portò tante volte a dover fare ritorno nel maltempo passato, in un continuo su e giù per scorgere, fra la nebbia dei miei ricordi, le radici del mio presente. Ricostruivo un puzzle di violenza e squallore, un’odissea che mi aveva cresciuta, un clima burrascoso in cui non era insolito aspettarsi le quattro stagioni in un giorno solo. Eppure, per quanto oggi mi sembri più facile ricollegare i miei disagi a quel clima familiare, non riesco a cancellare il mio senso di colpa. Penso a quei miei coetanei che giocavano con me, i quali sono cresciuti forti, nonostante nutriti dalla prostituzione materna, o violati da un abuso paterno o lasciati semplicemente da soli ad affrontare il proprio destino. Forse il mio malessere nasce proprio dalle colpe che in continuazione addebito alla mia persona, colpe che rimandano alla scelta della dipendenza e non ad una predestinazione ad essa. Sento una forma di angosciante biasimo per non essermi adeguata e protetta dalle tempeste del mio passato, tempeste analoghe a quelle di altri miei compagni che, invece, hanno saputo sfruttarle come un trampolino di lancio in una vita divorata, amata, e combattuta con impegno ed oggi inorgogliscono nel vedersi reduci vittoriosi di ardue imprese.
Il mio malessere si contorce al parto di un’inquietudine che può assumere diversi spessori senza mai cessare e che ancora oggi, a ventuno anni, mi fa oscillare tra il determinismo e la libertà individuale. È qui che abita la madre di tutte le mie domande, quella che mi chiede se il mio presente sia stato il frutto di una deliberata scelta personale oppure una tragica vittima delle circostanze. ☺
Per quanto creda che la vita sia una faccia mutante che si diverte a sorridere spesso a qualcuno, mostrandosi più rigida a qualcun altro, sono certa che le circostanze esterne in cui siamo incontrovertibilmente gettati non bastino, da sole, a determinare l’espressione di quella faccia. La sfida delle difficoltà, la ricerca delle soluzioni migliori e della forza necessaria sono elementi che accomunano i percorsi di tutti gli uomini, dando loro la possibilità di esercitare la propria libertà individuale. A guardare bene, poi, quelle che vengono considerate come circostanze sfavorevoli non lo sono mai in assoluto, bensì lo possono essere per taluni, mentre per altri possono risultare innocue o addirittura vantaggiose. Un’apparente triste e fredda tempesta di pioggia si rivela, invece, benefica per il contadino.
È a seguito di queste considerazioni che non riesco ad accettare che il destino di tossicodipendenza che ha segnato il mio cammino fin qui, dipenda solo dal contesto svantaggioso che, peraltro, riconosco di aver vissuto.
La mia voce è il suono di una tempesta che imperversa da anni, una voce che intende raccontarvi di una ragazza e della sua dannazione. Una bora travolse la mia infanzia e fu pioggia che si mescolò alle lacrime che troppo spesso non mi furono asciugate. Il pianto non fu ascoltato e il mio disagio crebbe fino a diventare un livido su un braccio appena quattordicenne. La sostanza mi fece sembrare immune a tutto quello, mi diede l’impressione che quella pioggia non mi bagnasse, che mi scivolasse addosso, così come ogni altra cosa della mia vita.
Eppure per quanto la sostanza potesse sembrare alleviante per i miei disagi, il suo scorrere nelle mie vene e il mio sentirmi immortale avevano, invece, la reale essenza della mediocrità. Fu solo quando mi chiesero per la prima volta chi fossi che mi resi conto di non saperlo e non lo sapevo in quanto in realtà non ero. Nei panni del dipendente mi dilettavo in astuzia, audacia e coraggio, doti che incanalavo ogni giorno nella ricerca di sostanza, nella voglia di svanire continuando ad esistere. Tutto questo mi costava passioni, sentimenti e vocazioni che, giorno dopo giorno, lentamente soffocavano. In me, però, da qualche parte si conservava uno spiraglio, nel profondo del mio io restava intatto un briciolo di aspirazione fatto di amore per la vita, mentre dormiva sepolto il mio principio di salvezza. Qualcuno fu capace di captarlo e iniziò a guidarmi, facendo leva sulla mia parte sana.
Erano i miei sedici anni a vedermi bussare alla porta di un centro di recupero per tossicodipendenti. Quel giorno, la mia famiglia scaricava i miei bagagli assieme a tutte le sue responsabilità, fuggendo da quella che per loro doveva essere considerata solo come il prodotto di brutti ricordi.
Quella porta varcata non si chiuse alle mie spalle, perché il cammino interiore che da lì intrapresi mi portò tante volte a dover fare ritorno nel maltempo passato, in un continuo su e giù per scorgere, fra la nebbia dei miei ricordi, le radici del mio presente. Ricostruivo un puzzle di violenza e squallore, un’odissea che mi aveva cresciuta, un clima burrascoso in cui non era insolito aspettarsi le quattro stagioni in un giorno solo. Eppure, per quanto oggi mi sembri più facile ricollegare i miei disagi a quel clima familiare, non riesco a cancellare il mio senso di colpa. Penso a quei miei coetanei che giocavano con me, i quali sono cresciuti forti, nonostante nutriti dalla prostituzione materna, o violati da un abuso paterno o lasciati semplicemente da soli ad affrontare il proprio destino. Forse il mio malessere nasce proprio dalle colpe che in continuazione addebito alla mia persona, colpe che rimandano alla scelta della dipendenza e non ad una predestinazione ad essa. Sento una forma di angosciante biasimo per non essermi adeguata e protetta dalle tempeste del mio passato, tempeste analoghe a quelle di altri miei compagni che, invece, hanno saputo sfruttarle come un trampolino di lancio in una vita divorata, amata, e combattuta con impegno ed oggi inorgogliscono nel vedersi reduci vittoriosi di ardue imprese.
Il mio malessere si contorce al parto di un’inquietudine che può assumere diversi spessori senza mai cessare e che ancora oggi, a ventuno anni, mi fa oscillare tra il determinismo e la libertà individuale. È qui che abita la madre di tutte le mie domande, quella che mi chiede se il mio presente sia stato il frutto di una deliberata scelta personale oppure una tragica vittima delle circostanze. ☺
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