Un naufragio di sogni
9 Maggio 2023
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Un naufragio di sogni

“Luna”, o “ginestra”, o ancora “ricordanze”. Queste forse le risposte più frequenti a chi ci chiedesse “Se ti dico Leopardi…”. La parola leopardiana preferita di un ragazzo siciliano di nome Giovanni è invece “colle”, che rimanda immediatamente a quelli che sono di solito considerati se non i più belli (de gustibus non disputandum), senz’altro i versi più noti del poeta di Recanati: quelli dell’idillio L’infinito. Ma a rendere del tutto speciale questa risposta è il fatto che Giovanni è un detenuto della Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo. Di lui, oltre al nome, conosciamo solo la data di nascita: 24 agosto 1983. È stato Giovanni, alcuni anni fa, a scrivere, in margine alla poesia L’infinito, una toccante lettera, indirizzata nientemeno che a Giacomo Leopardi. Lettera che, lungo le vie in cui si intrecciano le esperienze dei vari operatori che svolgono attività di volontariato culturale presso un istituto di pena, è finita da una angusta cella sulle pagine della prestigiosa rivista “Poesia” di Crocetti (n. 275, ottobre 2012, p. 24, in appendice all’articolo Un taccuino nel buio di Anna De Simone).

Con il suo sogno di libertà ispirato da un “colle”, Giovanni non solo ha perfettamente compreso il senso ultimo della poesia L’infinito, spesso fraintesa se non proprio deturpata da spericolate interpretazioni, che non rendono giustizia al pensiero di Leopardi: quei versi sono infatti semplicemente costruiti su uno spunto paesaggistico che innesca un’astrazione fantastica. L’idea di infinito che emerge dalla poesia, di conseguenza, non è metafisica o sovrumana, né mistica, ma basata su una realtà fisica concreta e su una percezione sensoriale, secondo quella che era la concezione filosofica materialistica e sensistica del poeta. Ma attraverso Leopardi e, più in generale attraverso la poesia, da quelle mura Giovanni ci ha soprattutto ricordato l’importanza di valori come la natura, la bellezza, l’amore, gli affetti, la letteratura, che rendono la vita degna di essere vissuta. A maggior ragione quando, in uno stato di detenzione, si è privati della libertà.

Caro Giacomo,

da carcerato credo di aver cominciato a capirti. È vero, sei un genio, ma dal tuo cuore soprattutto trai l’arte.

Adesso capisco bene quella tua poesia nata dalla vista di quell’ermo colle: anch’io ho di fronte il mio colle, anche se, al posto della siepe, ci sono delle sbarre; anch’io immagino, penso e vedo oltre quelle sbarre, e vorrei tanto incamminarmi su quel colle, sentire i suoi profumi, il suono del vento: sensazioni che non posso provare, che mi vengono represse dai divieti. Quel colle, pur così vicino, è l’“impossibile”. Vorrei viverlo quel colle, esplorarlo nel suo infinito, cogliere le opportunità mancate. Mi sento senz’anima, vuoto, perso in un mondo dove solo immagino la vita normale, sogno l’amore, contemplando dolci fantasie di carezze.

Giacomo, avere corrispondenza con te è un onore; mi accorgo infatti che, nonostante tu fossi un uomo libero, il tuo cuore sembra essere in gabbia. Tu meglio di me riesci a cogliere quelle malinconie che prova un uomo in catene, che può solo naufragare con dolcezza nei suoi sogni. Leggo e rileggo quella tua poesia e ogni volta mi emoziona intuire che l’hai scritta per me.

Grazie Giacomo, adesso non mi sento più solo: con te condivido gli umori di questi giorni, non mi rattristo più di tanto, sorriderò ai giorni che verranno. Mi hai fatto capire di essere in compagnia di una moltitudine di persone che, come noi, soffrono nel desiderio di vivere un colle, e si abbandonano a un naufragio di sogni.

Ti voglio bene, Giacomo. Ciao…

                               Giovanni S.

 

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