Valore della parola
4 Giugno 2025
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Valore della parola

Nella premessa al suo saggio Libera università (Einaudi, 2025) Tomaso Montanari si chiede: “Mai come ora … abbiamo bisogno di un luogo di pensiero libero, divergente, scardinante, non subordinato agli interessi di chi detiene il potere: l’università è quel luogo, se riusciamo a difenderne l’autonomia e dunque la libertà”. Per il rettore dell’Università per stranieri di Siena, libertà è una parola importante, ricca di significati, radicata nell’anima della nostra Carta costituzionale.
Mi sono tornate in mente le sue parole quando, sconfortato (si fa per dire!) dalle esternazioni ‘linguistiche’ di chi detiene la responsabilità dell’amministrazione di una delle nazioni più potenti del mondo, mi sono soffermato a riflettere su un’espressione inglese molto abusata oggi e che con la libertà – purtroppo! – ha a che vedere: free speech [pronuncia: fri spic, c dolce]!
In realtà l’espressione andrebbe tradotta con “discorso libero”, in quanto ‘discorso’ è la traduzione del sostantivo speech (derivato del verbo speak [pronuncia: spich], “parlare”) e l’aggettivo free significa “libero, gratuito”; per estensione “libertà di parola” è il senso italiano che oggi viene dato all’intera locuzione.
Apparentemente non ci sarebbe nulla da obiettare circa il valore civile e morale del ‘parlare liberamente’, del diritto che si riconosce ad ognuno/a di esprimersi e di condividere pareri, opinioni, idee. Mai ci augureremmo, nel nostro Occidente, che esistano società in cui non si possa esercitare la libertà di espressione, né gradiremmo rinunciare all’elemento basilare del nostro vivere democratico che prende le mosse proprio dall’individuo che autonomamente può pensare, agire, scegliere, nel rispetto delle regole di quella che chiamiamo democrazia.
Dovremmo però porre attenzione al mezzo che tutti e tutte usiamo per esprimerci liberamente, ed esso è soprattutto il linguaggio. E questo strumento di cui noi esseri umani ci pregiamo, e che nel corso dei secoli abbiamo plasmato ed adattato, resta un prezioso ed indispensabile veicolo di trasmissione di messaggi e sensazioni verso il quale – ed insisto – dovremmo avere la massima cura.
Personalmente riconosco che alcune restrizioni all’uso di determinati vocaboli, imposte dal cosiddetto politically correct, detto anche woke, abbiano creato qualche problema ed appesantito la comunicazione linguistica; d’altra parte però la critica all’uso rispettoso delle parole si sta trasformando, negli ultimi anni, in un’accesa denigrazione dello spirito per cui si era ricorsi al politicamente corretto. Pur riconoscendo l’ importanza di una comunicazione chiara e scevra da insulti e/o giudizi avventati, si è arrivati alla banalizzazione e alla ridicolizzazione dei presupposti da cui ha avuto origine la pratica dell’esprimersi secondo criteri di rispetto ed accoglienza. Il sinonimo woke, termine caro ai gruppi di opinione conservatori per indicare colui o colei che si batte contro ogni forma di discriminazione, è diventato, suo malgrado, l’emblema di chi in maniera intransigente e pedante intende rimarcare un uso del linguaggio troppo condizionato dalla correttezza etica piuttosto che dall’aderenza alla realtà.
La reazione del free speech – ahimè! – diventa quello che Matteo Lancini sottolinea: “Dire la propria spesso ha a che fare non tanto con l’esposizione di una riflessione o di un approfondimento, ma con un’ evacuazione che non dà senso e significato a un accaduto, che talvolta sarebbe meglio vivere in privato piuttosto che pubblicamente” (Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti, Cortina, 2025). Lo psicoterapeuta, interrogandosi sugli episodi di violenza che ultimamente vedono protagonisti i nostri giovani e giovanissimi, sostiene che “le emozioni non solo vengono vissute, ma diventano anche dirompenti, non riuscendo a essere né mentalizzate né elaborate. E allora producono risposte scomposte e tentativi maldestri di arginarle, che talvolta sfociano in atti aggressivi e disperati, violenti e mortali, come nei casi di cronaca più noti”.
Anche le parole risentono di questo clima ‘affrettato’ e non riflettuto: si fa a gara con il tempo per far sentire la propria voce, per esprimere un parere o emettere un giudizio inappellabile su qualcuno o su qualcosa: più è ‘muscolare’ – come lo definiscono alcuni – più appare efficace il linguaggio contemporaneo, quello che deve colpire, abbagliare, sommergere chi ascolta o semplicemente ne viene a conoscenza leggendone il resoconto. “L’aggressività, la violenza, l’invasione della mente dell’altro sono sempre più diffusi, in una società dove le emozioni non vengono elaborate ma sempre più spesso evacuate e affidate a una comunicazione istantanea”. Che differenza c’è tra adulti votati al free speech e gli adolescenti cui il dott. Lancini dedica il suo saggio?
Nel tracciare il profilo corretto dell’istituzione universitaria Tomaso Montanari afferma con fermezza che essa “fa il suo mestiere quando alimenta dubbi, distingue, discute, argomenta: non quando maledice o interdice”. E non si abbandona al free speech☺

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