Violenza di genere  e strategie di contrasto
10 Novembre 2019
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Violenza di genere e strategie di contrasto

In un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi nel 1983 Donatella Colasanti, vittima di uno dei più noti casi di cronaca riguardanti la violenza di genere, affermava che quanto accaduto dal 29 settembre al 1 ottobre 1975 nella villa del Circeo era un fatto che avrebbe dovuto riguardare “tutti” e non solo le femministe. In pochi, probabilmente, all’epoca avevano colto la portata rivoluzionaria delle parole di Colasanti, la quale lamentava l’attenzione morbosa dei media sui dettagli efferati e scabrosi del rapimento, l’eccessiva durata del processo e l’assenza della società civile, senza che nessuno si interrogasse sul senso stesso di quello che aveva rappresentato il massacro del Circeo.

A parte le donne, più o meno legate ai movimenti femministi degli anni 70, infatti, nel corso del processo non c’era stato nessuno accanto a Donatella Colasanti ed alla sua Avvocata Tina Lagostena Bassi: soprattutto erano assenti “gli uomini”, ossia coloro che avrebbero dovuto sentirsi parimenti offesi dal comportamento dei tre colpevoli. Donatella Colasanti aveva avuto l’intuizione ed acquisito la consapevolezza del fatto che il problema della violenza sulle donne non è semplicemente una questione di donne contro uomini, di affetti e di amori non corrisposti, di pulsioni più o meno animalesche, ma è un problema che dovrebbe coinvolgere la società intera e gli equilibri su cui la stessa si regge.

Del resto in letteratura il femminicidio ha sempre assunto dei contorni romantici e passionali, basti citare alcuni esempi famosissimi: Otello di Shakespeare, Il Rosso e il Nero di Stendhal, La Sonata a Kreutzer di Tolstoj, L’Idiota di Dostoevskij, tutte opere letterarie di altissimo pregio che si chiudono con il medesimo finale, ossia l’omicidio della donna amata dal protagonista, compiuto per troppo amore, per possesso, per gelosia. Inevitabilmente porre l’accento su questo sentimento forte e perduto comporta necessariamente una sorta di deresponsabilizzazione del colpevole, vittima di una forza indomabile, quasi costretto a compiere un gesto efferato. Di conseguenza, la vittima, da morta, viene quasi spersonalizzata, tanto è che nell’immaginario collettivo Desdemona o Nastasia Filippovna sono più famose come “oggetti di folle amore”, che come personaggi di grande complessità emotiva.

Si potrebbe continuare con esempi all’infinito, dal Monsier Verdoux di Charlie Chaplin in cui il femminicidio diventa quasi uno strumento di denuncia sociale, fino al recentissimo finale delle serie TV più famosa di tutti i tempi, Il Trono di Spade, che si chiude con l’omicidio della regina, colpevole di aver assorbito in tutto e per tutto il modello maschile ed alcuni suoi difetti, primo tra tutti la propensione al comando ed alla tirannia.

L’omicidio della donna pertanto è sempre stato connotato da un alone di romanticismo e passionalità, che ne ha impedito e ne impedisce tuttora (si pensi ai titoli dei giornali, non ultimo quello sul “gigante buono” nel femminicidio di Elisa Pomarelli) di coglierne a pieno il disvalore sociale e di indagare le strategie preventive.

Stereotipi e nuove sensibilità

Negli anni ‘60 e ‘70 la società italiana cambia profondamente, così come cambia la sensibilità sociale: motore di questo cambiamento è proprio l’emancipazione della donna, che si traduce a livello legislativo nella riforma del diritto di famiglia, nelle leggi di tutela della donna sul lavoro, nella legge sul divorzio e sull’interruzione volontaria di gravidanza. Attraverso questi provvedimenti si afferma, tra gli altri, il diritto delle donne di autodeterminarsi in condizione di parità con gli uomini. Il cambiamento culturale e sociale però è ben lontano dall’essere al passo con la normativa: le differenze e gli stereotipi di genere sono ben lontani dall’essere scardinati, basti pensare alla sopravvivenza del delitto di stupro come delitto che offende la libertà morale, che si protrarrà incredibilmente fino al 1996, a testimonianza del fatto che la concretizzazione della parità di genere è invece un processo molto lungo e travagliato.

Si delinea, quindi, uno scollamento tra il diritto positivo e la società civile, restia in certi contesti ad abbandonare la cultura patriarcale. I modelli tradizionali di ciò che dovrebbe essere “maschile” e ciò che dovrebbe essere “femminile” sono ancora ben presenti nel sentire comune. Su queste basi, dentro questa frattura, si innesta la violenza di genere, ossia la violenza rivolta alle donne in quanto tali, intendendosi per la parola genere l’insieme “dei ruoli, comportamenti, attività ed attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati” per uomini e donne (definizione data dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011).

Per comprendere la portata del fenomeno, basta riportare un dato: in Italia nel corso dell’anno 2019 è stata uccisa una donna ogni 72 ore. La lettura “sociale” non può che essere questa: quanto più le donne cercano di affermare pienamente il loro diritto ad autodeterminarsi in condizioni di parità con gli uomini, tanto più la reazione può diventare pericolosa e potenzialmente letale, e può comprendere non solo forme di violenza fisica e sessuale, ma anche altre forme di violenza subdole quali violenza psicologica ed economica. Spesso questa violenza viene consumata anche all’interno del nucleo familiare, con conseguenze ancora più devastanti, specialmente sui bambini.

A maggior ragione, si comprende come lo strumento legislativo costituito dalla legge penale e dagli strumenti di tutela offerti dal codice civile da soli non bastano per arginare il fenomeno, ma occorre un intervento globale e multi sfaccettato che preveda la necessità di agire nella società con strumenti culturali, in grado di contrastare da un lato il permanere degli stereotipi di genere, affermando pienamente il diritto di autodeterminazione delle donne, e dall’altro in grado di far cadere il velo “romantico” che ha sempre ammantato la narrazione del femminicidio.

Il recente intervento legislativo sul cd. codice rosso, che pure ha il merito di aver tipizzato alcune fattispecie di grande allarme sociale (si pensi al cd. revenge porn), appare come un intervento calato dall’alto, in totale ignoranza, se non spregio, di quanto espresso dalla Convenzione di Istanbul, primo strumento normativo che ha colto tutte le implicazioni sociali della violenza di genere, che dedica ampio spazio alla prevenzione della violenza ed al superamento degli stereotipi di genere, e soprattutto avulso dalle buone pratiche poste in essere dalla rete dei centri antiviolenza, presenti in buona parte del territorio italiano.

Contro la violenza di genere

La violenza di genere è un fenomeno subdolo, che si innesca nelle relazioni attraverso meccanismi di potere e di controllo – anche economico – dell’uomo sulla donna, pertanto per contrastarla è necessario fornire alle vittime non solo gli strumenti per la difesa legale e la protezione personale, ma anche gli strumenti psicologici e sociali necessari per affrancarsi dal maltrattante. Questo è possibile soltanto attraverso un complesso lavoro di rete, dove ognuna delle figure professionali coinvolte è messa in condizione di lavorare in sinergia con le altre per ottimizzare le strategie di intervento e tutela della persona offesa. A maggior ragione e soprattutto, quando in gioco ci sono i minori, che potrebbero essere, a loro volta, potenziali vittime di violenza.

Nella legge 69/2019 non vi è traccia delle buone pratiche emerse dal lavoro dei centri antiviolenza: a titolo esemplificativo basti pensare all’obbligo del pubblico ministero di ascoltare la vittima entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Al di là delle problematiche organizzative (già segnalate da alcune procure) che l’attuazione della norma porterà sugli uffici giudiziari, ci si domanda se sia opportuno ascoltare in un tempo così breve una vittima di violenza domestica, che invece ha bisogno di tempo e supporto specializzato, per maturare la propria decisione. Il rischio – non da poco – che si corre è quello che una donna, in assenza di tutti gli strumenti di tutela (primo tra tutti quello economico) possa fare dietro front e ripiombare nella stessa situazione di partenza, perdendo anche la credibilità nei confronti del sistema giudiziario, che a volte può essere poco avvezzo a cogliere le molteplici sfumature di sentimenti e di necessità che complicano i casi di violenza di genere, rendendoli del tutto peculiari rispetto alle altre fattispecie criminose. L’ improvvisazione (anche legislativa) in questo campo, è pericolosissima, e pertanto in prospettiva sarebbe stato doveroso ascoltare i centri antiviolenza, che avrebbero potuto segnalare le criticità e comunque stimolare il dibattito.

Puramente ignorata, nel recente intervento legislativo, la necessità di “fare cultura” contro gli stereotipi di genere – partendo dai più piccoli, cioè dalle scuole, per insegnare che donne e uomini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri e che non esistono ruoli prestabiliti all’interno della famiglia e nel contesto sociale. Senza un’azione profonda di tipo culturale sulla collettività, non si andrà mai alla radice del problema: proprio per questo il problema della violenza sulle donne è un fatto che riguarda “tutti”.

In questa prospettiva, l’Avvocato, in quanto mediatore tra la legge e la società civile, è attore privilegiato e deve acquisire consapevolezza del fatto che nello svolgimento del proprio ufficio non può e non deve mai cedere alla tentazione di abbracciare una tesi difensiva o accusatoria che sposi una visione della donna legata agli stereotipi di genere: troppo spesso nei processi di violenza c’è la tendenza a “colpevolizzare” la vittima per il suo abbigliamento, le sue abitudini di vita o la sua condotta. Siamo sicuri che questo faccia bene al processo e soprattutto faccia bene alla collettività? ☺

 

* Avvocata e Operatrice Centro Antiviolenza Be Free di Termoli

 

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