Non lo sapeva. Non voleva saperlo. Non gli interessava. Viveva così, dal giorno in cui era nato. Pochi istanti di contatto con l’aria e poi di nuovo nel liquido, come non fosse mai uscito dal ventre di sua madre. La sua malattia non aveva nome. Non c’era in letteratura un altro caso come il suo. Casi di paralisi totale non erano rari nei neonati e anche epidermidi talmente sensibili da mal tollerare il contatto con l’aria erano state studiate dalla medicina. Ma entrambi i sintomi, in un solo corpo e di intensità così violenta, mai si erano presentati davanti agli occhi di nessuno. E sì che i suoi genitori ne avevano consultati di specialisti e luminari prima di arrendersi. Ma ogni volta la stessa risposta. E soprattutto la stessa ipotesi di cura. Che poi di cura non si era mai trattato. Una cura dovrebbe avere come scopo la guarigione non la mera sopravvivenza. E così era stata costruita la vasca. Lui non ricorda quando accadde, doveva essere ancora troppo piccolo per averne memoria. Ma sa che da allora non l’ha mai lasciata. Il tubicino che arriva nel suo braccio gli invia le sostanze nutritive. Il sistema idraulico permette al liquido di rinnovarsi continuamente, portando via tutto quello che il suo corpo espelle. I bocchettoni inviano getti che lo massaggiano nei luoghi dove potrebbe piagarsi. Chiunque altro si sarebbe sciolto dopo tutto quel tempo passato in ammollo. Non lui. Lui non può vivere a contatto dell’aria. Sta lì immerso nel liquido, con un boccaglio che gli permette di respirare, continuando la sua lunghissima vita di feto. Fuori il mondo cresce, procede, respira, ma lui non lo sa. Non vuole saperlo. Non gli interessa. Ha acquistato da tempo la capacità di pensare, ma i suoi pensieri non hanno forma di parole, visto che in vita sua non ne ha mai sentita una. Sono suoni che conosce e capisce solo lui, suoni che ha imparato via via che li ha sentiti arrivare sulla superficie dell’acqua. E con quelli ha composto la sua lingua unica che gli permette di comunicare solo con se stesso. Anche le immagini arrivano sfocate, ondulate. Riconosce sua madre dalla massa di capelli neri, suo padre dal fatto che non ne ha. A nessun altro è permesso entrare il quella stanza.
Negli ultimi giorni li ha sentiti ripetere più volte una parola nuova. Piena di suoni acuti e sottili. Non sa ancora cosa significhi ma ha capito che la sua vita cambierà grazie all’oggetto che quella parola descrive. Sarebbe il primo cambiamento in dieci anni di vita. No, in realtà c’era già stato il boccaglio. La mascherina con l’elastico che passava dietro la testa, collegata al tubo per respirare, a un certo punto si era rivelata troppo piccola per il suo volto e così l’avevano sostituita. In realtà non era stato un cambiamento, solo una normale crescita. E l’eccitazione, che aveva annunciato l’evento, era cosa da niente rispetto a quello che sta accadendo ora. Quel suono, quella parola, sua madre la ripete di continuo e mentre lo dice è eccitata. Conosce le diverse vibrazioni dell’acqua che i sentimenti di sua madre producono dal tempo remoto in cui le stava nella pancia, sempre che ne sia mai uscito.
Il cambiamento deve essere avvenuto mentre lui dormiva. E deve aver dormito un sonno ben pesante se non si è svegliato mentre gli mettevano in faccia quei cosi. Forse gli hanno dato addirittura un sonnifero per farlo svegliare con la sorpresa.
E la sorpresa c’è. Immensa. Soffocante. Inaccettabile. Sua madre non è più solo una massa di capelli, suo padre ha occhi naso e bocca. In mezzo a loro brilla un albero illuminato di lucine intermittenti. Sul suo viso, appiccicati alla pelle con le ventose, stretti dietro il capo con un elastico, due occhialini nuovi gli permettono di vedere nitidamente ciò che non potrà mai incontrare. Ecco il fantastico regalo. Sono sbarcati sulla sua luna, nel suo mondo di suoni ovattati, movimenti senza gravità, tepore. Ora ci sono quei volti, quelle immagini nitide, estranee, incomprensibili e dolorose. Chiude gli occhi forte, e promette a se stesso di non riaprirli. Mai più. ☺
paolapresciuttini@virgilio.it
Non lo sapeva. Non voleva saperlo. Non gli interessava. Viveva così, dal giorno in cui era nato. Pochi istanti di contatto con l’aria e poi di nuovo nel liquido, come non fosse mai uscito dal ventre di sua madre. La sua malattia non aveva nome. Non c’era in letteratura un altro caso come il suo. Casi di paralisi totale non erano rari nei neonati e anche epidermidi talmente sensibili da mal tollerare il contatto con l’aria erano state studiate dalla medicina. Ma entrambi i sintomi, in un solo corpo e di intensità così violenta, mai si erano presentati davanti agli occhi di nessuno. E sì che i suoi genitori ne avevano consultati di specialisti e luminari prima di arrendersi. Ma ogni volta la stessa risposta. E soprattutto la stessa ipotesi di cura. Che poi di cura non si era mai trattato. Una cura dovrebbe avere come scopo la guarigione non la mera sopravvivenza. E così era stata costruita la vasca. Lui non ricorda quando accadde, doveva essere ancora troppo piccolo per averne memoria. Ma sa che da allora non l’ha mai lasciata. Il tubicino che arriva nel suo braccio gli invia le sostanze nutritive. Il sistema idraulico permette al liquido di rinnovarsi continuamente, portando via tutto quello che il suo corpo espelle. I bocchettoni inviano getti che lo massaggiano nei luoghi dove potrebbe piagarsi. Chiunque altro si sarebbe sciolto dopo tutto quel tempo passato in ammollo. Non lui. Lui non può vivere a contatto dell’aria. Sta lì immerso nel liquido, con un boccaglio che gli permette di respirare, continuando la sua lunghissima vita di feto. Fuori il mondo cresce, procede, respira, ma lui non lo sa. Non vuole saperlo. Non gli interessa. Ha acquistato da tempo la capacità di pensare, ma i suoi pensieri non hanno forma di parole, visto che in vita sua non ne ha mai sentita una. Sono suoni che conosce e capisce solo lui, suoni che ha imparato via via che li ha sentiti arrivare sulla superficie dell’acqua. E con quelli ha composto la sua lingua unica che gli permette di comunicare solo con se stesso. Anche le immagini arrivano sfocate, ondulate. Riconosce sua madre dalla massa di capelli neri, suo padre dal fatto che non ne ha. A nessun altro è permesso entrare il quella stanza.
Negli ultimi giorni li ha sentiti ripetere più volte una parola nuova. Piena di suoni acuti e sottili. Non sa ancora cosa significhi ma ha capito che la sua vita cambierà grazie all’oggetto che quella parola descrive. Sarebbe il primo cambiamento in dieci anni di vita. No, in realtà c’era già stato il boccaglio. La mascherina con l’elastico che passava dietro la testa, collegata al tubo per respirare, a un certo punto si era rivelata troppo piccola per il suo volto e così l’avevano sostituita. In realtà non era stato un cambiamento, solo una normale crescita. E l’eccitazione, che aveva annunciato l’evento, era cosa da niente rispetto a quello che sta accadendo ora. Quel suono, quella parola, sua madre la ripete di continuo e mentre lo dice è eccitata. Conosce le diverse vibrazioni dell’acqua che i sentimenti di sua madre producono dal tempo remoto in cui le stava nella pancia, sempre che ne sia mai uscito.
Il cambiamento deve essere avvenuto mentre lui dormiva. E deve aver dormito un sonno ben pesante se non si è svegliato mentre gli mettevano in faccia quei cosi. Forse gli hanno dato addirittura un sonnifero per farlo svegliare con la sorpresa.
E la sorpresa c’è. Immensa. Soffocante. Inaccettabile. Sua madre non è più solo una massa di capelli, suo padre ha occhi naso e bocca. In mezzo a loro brilla un albero illuminato di lucine intermittenti. Sul suo viso, appiccicati alla pelle con le ventose, stretti dietro il capo con un elastico, due occhialini nuovi gli permettono di vedere nitidamente ciò che non potrà mai incontrare. Ecco il fantastico regalo. Sono sbarcati sulla sua luna, nel suo mondo di suoni ovattati, movimenti senza gravità, tepore. Ora ci sono quei volti, quelle immagini nitide, estranee, incomprensibili e dolorose. Chiude gli occhi forte, e promette a se stesso di non riaprirli. Mai più. ☺
Non lo sapeva. Non voleva saperlo. Non gli interessava. Viveva così, dal giorno in cui era nato. Pochi istanti di contatto con l’aria e poi di nuovo nel liquido, come non fosse mai uscito dal ventre di sua madre. La sua malattia non aveva nome. Non c’era in letteratura un altro caso come il suo. Casi di paralisi totale non erano rari nei neonati e anche epidermidi talmente sensibili da mal tollerare il contatto con l’aria erano state studiate dalla medicina. Ma entrambi i sintomi, in un solo corpo e di intensità così violenta, mai si erano presentati davanti agli occhi di nessuno. E sì che i suoi genitori ne avevano consultati di specialisti e luminari prima di arrendersi. Ma ogni volta la stessa risposta. E soprattutto la stessa ipotesi di cura. Che poi di cura non si era mai trattato. Una cura dovrebbe avere come scopo la guarigione non la mera sopravvivenza. E così era stata costruita la vasca. Lui non ricorda quando accadde, doveva essere ancora troppo piccolo per averne memoria. Ma sa che da allora non l’ha mai lasciata. Il tubicino che arriva nel suo braccio gli invia le sostanze nutritive. Il sistema idraulico permette al liquido di rinnovarsi continuamente, portando via tutto quello che il suo corpo espelle. I bocchettoni inviano getti che lo massaggiano nei luoghi dove potrebbe piagarsi. Chiunque altro si sarebbe sciolto dopo tutto quel tempo passato in ammollo. Non lui. Lui non può vivere a contatto dell’aria. Sta lì immerso nel liquido, con un boccaglio che gli permette di respirare, continuando la sua lunghissima vita di feto. Fuori il mondo cresce, procede, respira, ma lui non lo sa. Non vuole saperlo. Non gli interessa. Ha acquistato da tempo la capacità di pensare, ma i suoi pensieri non hanno forma di parole, visto che in vita sua non ne ha mai sentita una. Sono suoni che conosce e capisce solo lui, suoni che ha imparato via via che li ha sentiti arrivare sulla superficie dell’acqua. E con quelli ha composto la sua lingua unica che gli permette di comunicare solo con se stesso. Anche le immagini arrivano sfocate, ondulate. Riconosce sua madre dalla massa di capelli neri, suo padre dal fatto che non ne ha. A nessun altro è permesso entrare il quella stanza.
Negli ultimi giorni li ha sentiti ripetere più volte una parola nuova. Piena di suoni acuti e sottili. Non sa ancora cosa significhi ma ha capito che la sua vita cambierà grazie all’oggetto che quella parola descrive. Sarebbe il primo cambiamento in dieci anni di vita. No, in realtà c’era già stato il boccaglio. La mascherina con l’elastico che passava dietro la testa, collegata al tubo per respirare, a un certo punto si era rivelata troppo piccola per il suo volto e così l’avevano sostituita. In realtà non era stato un cambiamento, solo una normale crescita. E l’eccitazione, che aveva annunciato l’evento, era cosa da niente rispetto a quello che sta accadendo ora. Quel suono, quella parola, sua madre la ripete di continuo e mentre lo dice è eccitata. Conosce le diverse vibrazioni dell’acqua che i sentimenti di sua madre producono dal tempo remoto in cui le stava nella pancia, sempre che ne sia mai uscito.
Il cambiamento deve essere avvenuto mentre lui dormiva. E deve aver dormito un sonno ben pesante se non si è svegliato mentre gli mettevano in faccia quei cosi. Forse gli hanno dato addirittura un sonnifero per farlo svegliare con la sorpresa.
E la sorpresa c’è. Immensa. Soffocante. Inaccettabile. Sua madre non è più solo una massa di capelli, suo padre ha occhi naso e bocca. In mezzo a loro brilla un albero illuminato di lucine intermittenti. Sul suo viso, appiccicati alla pelle con le ventose, stretti dietro il capo con un elastico, due occhialini nuovi gli permettono di vedere nitidamente ciò che non potrà mai incontrare. Ecco il fantastico regalo. Sono sbarcati sulla sua luna, nel suo mondo di suoni ovattati, movimenti senza gravità, tepore. Ora ci sono quei volti, quelle immagini nitide, estranee, incomprensibili e dolorose. Chiude gli occhi forte, e promette a se stesso di non riaprirli. Mai più. ☺
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