Ormai è passato un anno da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme e presto dovrò andare via. È per questo che voglio cimentarmi in un’apologia del capo.
Eh già! Di solito la parola capo fa supporre la presenza di una fredda distanza tra dipendenti e datore di lavoro, evoca i concetti di superiorità e inferiorità, l’idea che ci sia una persona che comanda senza rispettare pienamente le esigenze e l’umanità di chi gli sta di fronte. Non è questo il caso di Hikmet Aslan, il mio capo. A me piace chiamarlo così, affettuosamente! Anche se lui dice: “Meri, noi siamo amici!”. In un Molise dove ci sarebbe da indignarsi in continuazione c’è anche la bellezza che forse è nascosta ma che quando ti trova non ti abbandona più, la bellezza del cuore di Hikmet e di sua moglie Mensure, per esempio.
Hikmet è un combattente, in tutti i sensi, perché ha combattuto per un Kurdistan libero contro una Turchia criminale che gli ha riservato le peggiori torture e lo ha costretto a lasciare la sua terra, ha combattuto per arrivare in Italia con un barcone insieme a sua moglie, ha combattuto per restare umano nei campi di accoglienza calabresi, ha combattuto per trovare una dimensione in un nuovo mondo, per trovare un lavoro e una casa, ha combattuto per rendere fertile il tessuto sociale molisano, creando reti tra immigrati e gente del posto, ha combattuto (suppongo anche interiormente) contro la cultura maschilista che è arrivata nella sua terra e che domina la nostra ispirandosi ai principi di parità di Ocalan, e combatte ora perché il comune di Campobasso conceda la cittadinanza onoraria a Abdullah Ocalan.
Non avrei potuto trovare “capo” migliore perché con Hikmet si fanno grandi discorsi: si parla di guerra e di pace, di religione, di famiglia, di amore, di lotta, di comunismo partiti e politica, di amicizia, di idee, di ideali. Con Hikmet e Mensure si va al corteo del 1° maggio a S. Croce e gli si dà valore. Hikmet parla delle esperienze in montagna, dei compagni e dei compagni morti, delle torture… e non si lamenta, non piange, non urla. Sorride! E il suo sorriso è disarmante, come la sua pazienza, la sua positività, la sua fiducia nelle persone e nella possibilità di cambiare il mondo. Hikmet è un esempio.
Poche parole non possono bastare a spiegare quanto mi ha insegnato in questo anno, come mi ha guidata verso nuovi punti di vista. Con me porterò un insegnamento: “Tu devi essere un esempio!” e una promessa: se mai avrò un figlio mi piacerebbe chiamarlo Libertà, in kurdo, con la speranza che il Kurdistan diventi davvero libero un giorno e che la lotta di Hikmet e di chi come lui non vada perduta.
E poi c’è “Peperoncino”, l’ho soprannominata così Mensure, perché è lei che dà più sapore a tutto oltre che ai suoi manicaretti e alla sua casa, un fiume in piena, ricca di affetto, aperta alla voglia di imparare. Anche lei una combattente, il simbolo delle donne che non mollano e prendono coscienza di sé. Mensure odia i suoi ricci, io invece li adoro perché in essi vive la ribellione necessaria per essere diversi, fuori dalla massa, per un mondo migliore.
Verba volant, scripta manent.☺
Ormai è passato un anno da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme e presto dovrò andare via. È per questo che voglio cimentarmi in un’apologia del capo.
Eh già! Di solito la parola capo fa supporre la presenza di una fredda distanza tra dipendenti e datore di lavoro, evoca i concetti di superiorità e inferiorità, l’idea che ci sia una persona che comanda senza rispettare pienamente le esigenze e l’umanità di chi gli sta di fronte. Non è questo il caso di Hikmet Aslan, il mio capo. A me piace chiamarlo così, affettuosamente! Anche se lui dice: “Meri, noi siamo amici!”. In un Molise dove ci sarebbe da indignarsi in continuazione c’è anche la bellezza che forse è nascosta ma che quando ti trova non ti abbandona più, la bellezza del cuore di Hikmet e di sua moglie Mensure, per esempio.
Hikmet è un combattente, in tutti i sensi, perché ha combattuto per un Kurdistan libero contro una Turchia criminale che gli ha riservato le peggiori torture e lo ha costretto a lasciare la sua terra, ha combattuto per arrivare in Italia con un barcone insieme a sua moglie, ha combattuto per restare umano nei campi di accoglienza calabresi, ha combattuto per trovare una dimensione in un nuovo mondo, per trovare un lavoro e una casa, ha combattuto per rendere fertile il tessuto sociale molisano, creando reti tra immigrati e gente del posto, ha combattuto (suppongo anche interiormente) contro la cultura maschilista che è arrivata nella sua terra e che domina la nostra ispirandosi ai principi di parità di Ocalan, e combatte ora perché il comune di Campobasso conceda la cittadinanza onoraria a Abdullah Ocalan.
Non avrei potuto trovare “capo” migliore perché con Hikmet si fanno grandi discorsi: si parla di guerra e di pace, di religione, di famiglia, di amore, di lotta, di comunismo partiti e politica, di amicizia, di idee, di ideali. Con Hikmet e Mensure si va al corteo del 1° maggio a S. Croce e gli si dà valore. Hikmet parla delle esperienze in montagna, dei compagni e dei compagni morti, delle torture… e non si lamenta, non piange, non urla. Sorride! E il suo sorriso è disarmante, come la sua pazienza, la sua positività, la sua fiducia nelle persone e nella possibilità di cambiare il mondo. Hikmet è un esempio.
Poche parole non possono bastare a spiegare quanto mi ha insegnato in questo anno, come mi ha guidata verso nuovi punti di vista. Con me porterò un insegnamento: “Tu devi essere un esempio!” e una promessa: se mai avrò un figlio mi piacerebbe chiamarlo Libertà, in kurdo, con la speranza che il Kurdistan diventi davvero libero un giorno e che la lotta di Hikmet e di chi come lui non vada perduta.
E poi c’è “Peperoncino”, l’ho soprannominata così Mensure, perché è lei che dà più sapore a tutto oltre che ai suoi manicaretti e alla sua casa, un fiume in piena, ricca di affetto, aperta alla voglia di imparare. Anche lei una combattente, il simbolo delle donne che non mollano e prendono coscienza di sé. Mensure odia i suoi ricci, io invece li adoro perché in essi vive la ribellione necessaria per essere diversi, fuori dalla massa, per un mondo migliore.
Hikmet è un combattente, in tutti i sensi, perché ha combattuto per un Kurdistan libero contro una Turchia criminale che gli ha riservato le peggiori torture e lo ha costretto a lasciare la sua terra, ha combattuto per arrivare in Italia con un barcone insieme a sua moglie, ha combattuto per restare umano nei campi di accoglienza calabresi, ed anche per trovare una dimensione in un nuovo mondo, per rendere fertile il tessuto sociale molisano.
Ormai è passato un anno da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme e presto dovrò andare via. È per questo che voglio cimentarmi in un’apologia del capo.
Eh già! Di solito la parola capo fa supporre la presenza di una fredda distanza tra dipendenti e datore di lavoro, evoca i concetti di superiorità e inferiorità, l’idea che ci sia una persona che comanda senza rispettare pienamente le esigenze e l’umanità di chi gli sta di fronte. Non è questo il caso di Hikmet Aslan, il mio capo. A me piace chiamarlo così, affettuosamente! Anche se lui dice: “Meri, noi siamo amici!”. In un Molise dove ci sarebbe da indignarsi in continuazione c’è anche la bellezza che forse è nascosta ma che quando ti trova non ti abbandona più, la bellezza del cuore di Hikmet e di sua moglie Mensure, per esempio.
Hikmet è un combattente, in tutti i sensi, perché ha combattuto per un Kurdistan libero contro una Turchia criminale che gli ha riservato le peggiori torture e lo ha costretto a lasciare la sua terra, ha combattuto per arrivare in Italia con un barcone insieme a sua moglie, ha combattuto per restare umano nei campi di accoglienza calabresi, ha combattuto per trovare una dimensione in un nuovo mondo, per trovare un lavoro e una casa, ha combattuto per rendere fertile il tessuto sociale molisano, creando reti tra immigrati e gente del posto, ha combattuto (suppongo anche interiormente) contro la cultura maschilista che è arrivata nella sua terra e che domina la nostra ispirandosi ai principi di parità di Ocalan, e combatte ora perché il comune di Campobasso conceda la cittadinanza onoraria a Abdullah Ocalan.
Non avrei potuto trovare “capo” migliore perché con Hikmet si fanno grandi discorsi: si parla di guerra e di pace, di religione, di famiglia, di amore, di lotta, di comunismo partiti e politica, di amicizia, di idee, di ideali. Con Hikmet e Mensure si va al corteo del 1° maggio a S. Croce e gli si dà valore. Hikmet parla delle esperienze in montagna, dei compagni e dei compagni morti, delle torture… e non si lamenta, non piange, non urla. Sorride! E il suo sorriso è disarmante, come la sua pazienza, la sua positività, la sua fiducia nelle persone e nella possibilità di cambiare il mondo. Hikmet è un esempio.
Poche parole non possono bastare a spiegare quanto mi ha insegnato in questo anno, come mi ha guidata verso nuovi punti di vista. Con me porterò un insegnamento: “Tu devi essere un esempio!” e una promessa: se mai avrò un figlio mi piacerebbe chiamarlo Libertà, in kurdo, con la speranza che il Kurdistan diventi davvero libero un giorno e che la lotta di Hikmet e di chi come lui non vada perduta.
E poi c’è “Peperoncino”, l’ho soprannominata così Mensure, perché è lei che dà più sapore a tutto oltre che ai suoi manicaretti e alla sua casa, un fiume in piena, ricca di affetto, aperta alla voglia di imparare. Anche lei una combattente, il simbolo delle donne che non mollano e prendono coscienza di sé. Mensure odia i suoi ricci, io invece li adoro perché in essi vive la ribellione necessaria per essere diversi, fuori dalla massa, per un mondo migliore.
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