cattiva comunicazione
1 Ottobre 2011 Share

cattiva comunicazione

 

Che cosa fa, o  sarebbe opportuno che facesse, ciascuno di noi quando ha di fronte la pagina bianca per il suo “articolo”? Tentare di leggere la realtà conciliandola con la propria visione del mondo; impegnarsi, secondo categorie condivise, ad interpretare ciò che accade e quindi fornire una risposta che sia allo stesso tempo generatrice di un’ulteriore domanda.

È questo il meccanismo che ha permesso, dagli ominidi ad oggi, la risoluzione di qualsiasi problema inerente, ad esempio, il miglioramento delle condizioni di vita. La necessità di difendersi dalle belve? La lavorazione di pietre scheggiate. La conservazione degli alimenti? Il ricorso al sale. Ricavare dal suolo specie commestibili? Piantare semi. E si potrebbe continuare, a dimostrazione che ogni azione ne generava altre.

I quesiti dell’homo videns, specie umana del nostro secolo, per quanto sofisticati vogliano apparire, risultano, al confronto, risibili.

Nell’ambito della comunicazione accade sempre più frequentemente che due interlocutori si trovino in disaccordo perché l’uno non ascolta l’altro, ciascuno si avventura nel suo slang infarcito di termini specifici, incomprensibili ai più, con l’unica intenzione di depistare l’altro, svicolando dal tema centrale. Quale strategia? Gareggiare verbalmente per fornire risposte diametralmente opposte, poco importa se la questione sia rilevante od ovvia. Risultato? Soluzione inevasa, dopo tanto parlare! Obiettivo raggiunto? Essere riusciti per l’ennesima volta a rinviare. A data da destinarsi e intanto… black out del pensiero.

Ricorro, per citare un esempio di cattiva comunicazione, allo scambio di opinioni cui ho assistito solo pochi giorni fa nel confronto tra il deputato Antonio Martino, esperto di  economia, e il sacerdote don Andrea Gallo, prete di strada, nella trasmissione televisiva In Onda (17 settembre, La7). Il tema portante era, neanche a dirlo, la crisi economica, il default, lo spauracchio della recessione e così discorrendo. Ad un certo punto si è fatta strada, tra le altre, una parola semplice, una di quelle che accomunano: povertà.

Indipendentemente dai loro ruoli, e relativamente al concetto di “povertà”, tra i due interlocutori è subito intercorsa una distanza incolmabile. Che passi pure il fatto che l’ex ministro non volesse ammetterne l’esistenza. Ma come è possibile che, pur essendo differenti i campi di indagine e di azione dei due protagonisti del confronto, gli stessi non potessero concordare sulla definizione del termine? Possibile che l’ex ministro abbia strumentalmente usato Francesco d’Assisi per veicolare la sua concezione del termine povertà? Possibile che un onorevole rappresentante della res publica abbia potuto rivolgersi al sacerdote appellandolo come “pretacchione” e schernirlo, sostenendo la superiorità materiale di Pietro di Bernardone, lui sì vero filantropo e benefattore dei poveri, rispetto al figlio Francesco, un fallito che, abbracciando la causa della povertà, aveva lasciato – secondo l’economista Martino – i poveri nell’indigenza? Chiedo scusa al lettore se non riporto con dovizia di particolari tutte le stronzate che l’ex ministro ha proferito, ma suggerisco, a chi vuole, di rivedere la trasmissione sul Web.

Si diventa partigiani, cioè di parte, se ci si schiera con don Gallo, con De Andrè, e pochi altri; si è misconosciuti e ridicolizzati se si prova a fornire una sia pur timida argomentazione rispetto a ciò in cui si crede. Viene da chiedersi, dato il ruolo che anch’io ricopro, perché mai le nuove generazioni dovrebbero appassionarsi allo studio del Cantico di frate Sole, alla non facile esegesi del testo, ai suoi diversi e molteplici messaggi. Quanto anacronistici risultano questi insegnanti rispetto all’economista Martino! Non si sono accorti, nonostante la critica letteraria, la rivisitazione e l’attualizzazione del testo, che la parola povertà potesse diventare una di quelle parole cosiddette “amebe”, per dirla con Antonio Pascale, che, una volta proferita, può dare adito alle associazioni terminologiche più impensate e insensate, permettendo a chiunque gli accostamenti che crede o, per ricorrere ad una colorita espressione del meridione d’Italia, “inzupparvi il pane”.

Il problema povertà è stato almeno affrontato? No. Gli spettatori, come nelle arene dell’impero, hanno assistito alla tracotanza verbale del politico di turno. Qualcuno ha spento il televisore amareggiato, non senza aver fatto propri i due messaggi che Andrea Gallo ha ribadito, pur ostacolato dalla voce stentorea del suo interlocutore. Primo: “La ricchezza è un insulto”. Secondo: “Agitatevi!”. ☺

annama.mastropietro@tiscali.it

 

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