Ho incontrato la “mafia”
19 Giugno 2017
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Ho incontrato la “mafia”

Il mio primo incontro con la “mafia”

Il brusio iniziava incessante verso le ventidue di sera, due volte a settimana; diventava sempre più insistente con il buio intenso, a volte diventava vociare acuto verso le tre-quattro di notte. Rumori di contenitori, urla, liti. Era arrivata l’acqua in paese! I grandi camion con l’acqua la distribuivano e le persone “babbiavano” perché chi aveva il motorino la succhiava subito e chi non lo aveva doveva aspettare e riempire taniche e taniche di acqua che doveva bastare per almeno tre giorni. Questo è stato il mio primo incontro con la Mafia: Castellammare del Golfo, anno 1982.

Questo vociare notturno mi sembrava un ventre pulsante e nello stesso tempo irreale. Alle mia domanda ma perché non c’è acqua risposte immediate, fulminanti “perché nun ce n’è” e quel nun ce n’è, intendeva c’è ma non ce la danno e chi non ce la dà, è perché noi siamo semplice popolo; altri ce l’hanno e come l’acqua! Basta pagare!

La mafia prende forma, nella siccità come nella vigilanza

La mafia comparve nella mia testa di là dalle conoscenze letterarie, con questo volto di necessità primaria, a poco a poco si rivelò in forme diversificate: quando prendemmo la casa a Visicari.

Era la vigilanza notturna: subito mi dichiararono che era il pagamento di un pizzo per non farsi rubare il motorino dell’acqua o bruciare quelle minuscole casette che chiamavamo case di vacanza o avere altri sgarbi. Al mio civico e naturale ma io non voglio essere connivente tutti mi dissero è così.

Era andare alla vucciria con l’attenzione di non fare sgarri e me ne avvidi quando un bruno e sorridente motociclista mi ronzò intorno fin quando gli dissi sgarbatamente ma mi vuoi lasciare stare e divenne occhi di pescecane al successivo incontro dopo tre o quattro bancarelle fatte con moto rombante. Ricordo che qualcuno mi rimproverò che ero stata sgarbata con un mafiosetto.

Era l’omaccione della vigilanza che arrivava d’estate a riscuotere: bianco pallido, grasso, gli occhi glauchi che diventarono pozzanghere grigie nel non rispondermi quando gli chiesi dove fossero i 365 biglietti della vigilanza notturna.

Era i pipitoni di Tobia il giardiniere del paese o di quasi tutto, giardiniere perché ci ripuliva quel fazzoletto di terra, dove buganvillee, filodendri, gelsomini erano rigogliosi e svettanti al cielo, dalle spine e dai rovi affinché si impedissero gli incendi (sempre dolosi, sempre con lo scirocco) e arieggiava le case per non farle diventare umide. Ogni casa aveva sul tetto una pietra grande a piramide: il pipitone appunto che, come mi diceva Valeria, era il segno che noi eravamo protette da qualcuno e che non dovevamo subire sgarri.

Sarà stato vero o faceva parte della leggenda locale? Certo è che proprio Tobia, un’estate a Visicari, mi raccontò che uno dei due ragazzi che abitavano fissi in una casetta della salita, con un pavone che lanciava il suo verso ogni notte, come un urlo di mostro in gabbia, era stato ucciso senza che si trovasse il corpo – che cosa orribile – gli dissi.

Mi rispose con filosofia e con cocciuta reazione là dove dichiaravo ma non per questo doveva essere ucciso, si vede che ha fatto qualche sgarbo a qualcuno che non doveva toccare.

La rassegnazione di una parte dei siciliani

Non si doveva parlare ed anche ogni azione o premessa a discorsi implicanti la partecipazione erano rintuzzati con è tutto inutile qui non si può fare niente di quello che dici, tu vieni da Bologna non sai qui come si vive.

E quel qui come si vive, implicava medici, impiegati, liberi professionisti, professori, erano un acquitrino, dove si bagnavano tutti per qualsiasi cosa; perfino le gite in luoghi stupendi dove incuria e maleducazione regnavano regine mi erano indicate come una volontà esterna: la mafia.

Mi sono innamorata di Trapani, del suo vento, della sua bellezza struggente, delle sue saline, dei suoi bar ospitali, delle persone e dei loro sorrisi, perché ci sono migliaia di persone e sorrisi che ti fanno capire che loro non vogliono, non ci stanno, non sono conniventi eppure anche Trapani mi fu interdetta da questo diffuso senso della mafiosità.

Di Falcone si parlava anche male: voleva farsi bello, voleva portare la Sicilia a credere che si salvasse e lui faceva la prima donna. Buscetta aveva già parlato, si era concluso il maxi processo, c’era stato già l’attentato all’Addaura. Eh sì quella se li è fatta mettere lui (la bomba) per fare il martire!

C’è uno spartiacque fra il segreto dell’acqua e il dopo.

Il dopo Capaci

Quel giorno ero a Bologna in una via de’ Chiari già calda, con il desiderio di tuffarmi nel mare blu. Inizialmente la televisione disse solo Capaci, non fece nomi: vidi il baratro, pensai alle mie amicizie palermitane e telefonai già angosciata. Il resto è storia. Quel giorno e poi quello di Borsellino fecero scomparire subito a Visicari la vigilanza, l’indignazione colpì tutti, la partecipazione sconvolta della Palermo onesta ed anche di quella che aveva taciuto e della Sicilia che non aveva riso e brindato con i mafiosi del maxi processo, portò i suoi frutti: davvero per vari anni ho vissuto un’aria diversa, una voglia di riscatto e partecipazione alle cose del mondo.

Dobbiamo questo a Falcone, almeno questo. Al suo voler essere un uomo servitore delle istituzioni e, senza la sua volontà, essere diventato eroe dell’acqua e non solo.

La mafia poi ha cambiato volto, non sono state scoperchiate le zone di mezzo, di sotto e di sopra. Adesso la mafia è in ogni luogo di nuovo accompagnata a poteri forti. Ha cambiato ritmo. Ma io spero sempre che quando tornerò in Sicilia, non so quando, almeno il brusio notturno della gente che ha sete, non lo sentirò più.☺

 

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